La tua voce è perduta nel mistero delle strade. Respiri in altri cieli e forse accanto a me. Ma non ti scorgo.
Sei tornata nel numero, migrante sopra la crosta della terra, forma senza vita e perché, donna tra donne!
E davi un senso ai miei pensieri, il mondo era tutto creato dai tuoi gesti
e le case, le ombre si acquattavano per lasciarci passare e tu tremavi
accanto a me, se gli alberi dall’alto parlavano tra loro e il tuo respiro era nel fiato oscuro della notte.
(Sei tornata nel numero, poesia di Giuseppe Villaroel da “Il cuore e l’assurdo”, 1933, in La Bellezza intravista. Antologia poetica 1914-1956, Firenze, Vallecchi Editore, 1959).
Tutte le foto sono state scattate al cimitero monumentale di Mascalucia (CT).
“Colui che sta ancora sulla terra, ma ha la cittadinanza nel cielo e lassù ammassa tesori poiché ivi ha il suo cuore e porta l’immagine del Celeste, non per il posto che occupa egli non è più sulla terra, ma per le sue disposizioni interiori; e non appartiene al mondo di quaggiù, ma del cielo, e di un mondo celeste migliore di quello.”
Origene, La preghiera
Pietro Novelli detto il Monrealese (Monreale, 1603 – Palermo, 1647), Tela di S.Anna – Presentazione della Vergine Maria al Tempio
Gravina di Catania è uno dei famosi “casali” dell’Etna, anticamente denominato Plachi ( probabilmente da plaghe, campagne). L’attuale toponimo risale alla metà del XVII secolo, quando divenne feudo della famiglia Gravina.
Tra i paesi etnei è forse uno dei più “cittadini”, non solo perchè la sua parte più bassa confina proprio con la città, ma anche per la modernità di gran parte del suo territorio. A me è molto caro: per questo ne ho cercata l’anima più suggestiva. Che risiede, essenzialmente, nel piccolo nucleo storico gravitante intorno alla chiesa madre di S. Antonio di Padova. Qui ho fatto la mia “passeggiata sentimentale” alla ricerca di bellezze ancora intatte, ma che pochi ormai (purtroppo) notano e apprezzano.
Cominciamo proprio dalla chiesa madre, sulla piazza principale. Intitolata a Sant’Antonio di Padova, patrono del paese, risale al 1573 ed è stata ristrutturata nel 1852. L’esterno è degno di nota per alcuni dettagli pregevoli, come la porta in legno scolpito.
Accanto alla matrice sorge un’altra chiesetta, appartenente alle Suore Francescane Missionarie dell’Eucarestia.
Salendo lungo la via Etnea, ovvero la strada che sale verso l’Etna, si incontra un’altra chiesa, che non presenta alcun elemento di identificazione se non l’anno della consacrazione sul portale lavico. Attraverso questo dettaglio, sappiamo che è databile al 1654.
L’edificio si prolunga in un antico corpo di fabbrica: il che potrebbe suggerire anche l’ipotesi di un piccolo complesso monastico. Ma non ho notizie a sostegno, quindi nessuna conclusione (per ora).
Camminando ancora in direzione nord troviamo la chiesetta del SS. Rosario. Graziosa e curata, è del 1870, quindi molto più recente rispetto alle altre. Nella facciata, la semplicità dell’impianto è ravvivata da pochi decori sobri che conferiscono gusto ed eleganza.
Subito dopo c’è una piazzetta alberata molto particolare: vi troneggiano un vecchio cannone e il monumento ai caduti gravinesi della Grande Guerra.
Molto bello il parco comunale con l’annesso anfiteatro, la rinomata “Villa di Gravina”, da moltissimi anni location privilegiata di eventi e servizi fotografici.
Questo bel posto affaccia sulla via Roma, una strada interna caratterizzata dalla presenza di molti altarini sacri e della deliziosa chiesetta di San Giuseppe.
Eretta nel XVIII secolo, era stata originariamente dedicata alle anime del purgatorio e conosciuta con il nome popolare di “Chiesa e morti”.
Come quella della chiesa madre, anche la porta lignea di questa chiesa è scolpita con grande finezza. Nei riquadri sono raffigurate scene della vita di San Giuseppe. Il paese vanta una tradizione d’eccellenza nella lavorazione artistica del legno grazie ai monaci benedettini del convento di Sant’Antuneddu, sito al confine tra Gravina e Mascalucia.
In altre occasioni ho parlato della forte spiritualità delle genti etnee: ecco, questo piccolo centro storico ne è una testimonianza evidente. Non solo per l’alta concentrazione di edifici di culto, ma anche per le belle edicole votive, che si incontrano praticamente ad ogni passo.
Alcune sono antiche, altre modernissime: ciò che le accomuna è la cura amorevole con cui sono mantenute. Molte sono dedicate alla Madonna, qualcuna al Sacro Cuore di Gesù. Presente è anche San Pio da Pietralcina, a cui è stato intitolato un piccolo giardino pubblico. Non manca, naturalmente, il patrono Sant’Antonio di Padova.
Una grande statua di Sant’Antonio di Padova, protetta da una teca, benedice tutti quelli che dal paese salgono verso la Montagna attraverso la via Gramsci.
L’affettuosa devozione dei gravinesi al loro Santo si esprime anche nella grandiosità con cui viene organizzata ogni anno la festa patronale (13 giugno).
Vorrei, come rugiada in grembo al fiore, In grembo a rosea nuvola celarmi,
Piangere, amar, pregare, in sin che fuore Me dal recesso mio, gli altri dai marmi La novissima tuba un di ridesti, E n’ apra i tabernacoli celesti.
Nella libera, immensa aria sospesa Tenterò nuovi liberi concenti, E degli uomini invece, sarò intesa Dagli spirti, dai fulmini, e dai venti.
Canterò forti note, a ria contesa Chiamerò le procelle e gli elementi; Canterò le mie pene, e gli astri e il Sole Leveransi alle flebili parole.
Fuggir sopra una nube! ad ogni umana Cosa fuggire è un nobile deliro, Un sogno etereo, un’ esistenza arcana, Un mesto, placidissimo ritiro.
Esser viva, esser sola, esser lontana, Desiata nel mondo e nell’ empiro, Mistero a tutti, nota sol nei canti.
Ebbrezza di Cherubi, amor di Santi!
Versi tratti dalla lirica “La campana del 2 novembre” di Giuseppina Turrisi Colonna (Palermo, 1822-1848) dal volume “Liriche di Giuseppina Turrisi Colonna”, Firenze, Le Monnier, 1846.
Tutte le foto sono state scattate al cimitero di Tremestieri Etneo (CT).
Lunghi tralci, lunghi tralci mi strinsero mi chiusero le braccia; specchiavo conca notturna d’acque montane, sapevo le radici e le fonti, alla bruma leggera passavano l’ombre dei giorni, sorgevano i volti fra la speranza e il dolore; ed era tepore primevo ritorno e infinita carezza. Ma quando il risveglio m’apre i mattini e mi posa su le sponde della luce reco un balsamo ignoto un olio che mi fa dolci le cose, in silenzio consuma, e mi ridona il mondo in risonanze, in memorie (e indugiano i giorni in lenti meriggi, in vesperi immensi). Così vado fra gli echi le nuvole e i raggi, non m’è straniera la spiga della lavanda che brucia l’aria o il petalo bianco ai cespugli furtivi di vento. Dietro le colline respira la stagione, scendono i declivi, ed è così molle il cammino sui viali dove le svolte spengono l’ansia dei passi che gli orizzonti fra i rami svaniscono, sorgono ancora, in abbandono di spazio. Lunghi tralci, lunghi tralci mi strinsero mi chiusero le braccia ed era ritorno, promessa; ma nella luce, nel giorno ove inclino l’ore al canto e va l’acqua fievole nella creta che brucia serbo l’ombra serbo la malia: mai tace il colloquio nascosto, mai posa la voce segreta.
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L’Anima e i prestigi
Ma l’anima confondono i prestigi: intimidita abbassa la scriminitura che parte le nere chiome, le palpebre ombrate; nel cestello ripone la matassa, gli aghi, il ditale, piega la fioritura paziente sul bianco, nelle sere. E la lontana dimora di nuovo l’accoglie: serbano le scansie tenebrose pallide ampolle, o, pendenti in vimini dal soffitto, e un poco oscillano quando passa la tramontana; spirare senti con l’erbe della solitudine, l’altura. A la tarda ora solo guarda l’alto abbaino la stella polare.
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Mobile universo di folate di raggi, d’ore senza colore, di perenni transiti, di sfarzo di nubi: un attimo ed ecco mutate splendon le forme, ondeggian millenni. E l’arco della porta bassa e il gradino liso di troppi inverni, favola sono nell’improvviso raggiare del sole di marzo.
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Ombre
Le sognanti, lontane ombre che sono dietro le tue parole questa notte, fantastiche o dolenti le portava la corrente dei giorni, il vento che apre i colori, ed ognuna il suo segreto di dolore o di gioia che il destino segnò e il buio chiude; e ancora altre ne chiami che dileguando diedero un’impronta di lume: la promessa d’un ritorno; mani che schiusero i riposi, occhi che riflettevano i meriggi sotto i rami, le foglie della vite che il raggio fa vivaci, oh le stormenti stagioni attorno ai volti, l’ore che scendevano a noi come in dolcezza umana fatte miti da uno sguardo: viva siepe, riparo che fa sicure in cerchio notti, albe, tramonti, e come pianamente rispondevano ad ogni sole che mai le avrebbe, mai sfiorate il rombo del mistero; ma in fondo ad ogni svolta è il dolore, la cenere che tocchi si riga: brace e sangue.
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Dove spore di sole frangono spume in volo s’aprono all’avventure vibran spazi marini; nube corriera allaccia i promontori e balza fuga leggera d’echi. Ma dove già si ferma l’ombra ne l’alta veglia di fusti e di fogliame, sapienza di sorgive sospesa l’aria incanta. E nell’alture (male d’erbe la pietra invade) già buio di cisterna pensa colori e forme: nei sonni scenderanno reclini su l’ignoto.
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Di soste viviamo; non turbi profondo cercare, ma scorran le vene, da quattro punti di mondo la vita in figure mi viene. Non fare che ancora mi colga l’ebbrezza, ma lascia che l’ora si sciolga in gocce di calma dolcezza; e dove era il raggio feroce, ai muri vicini che celano i passi ed i visi, solleva una voce improvvisi giardini.
E il soffio è sereno che muove al traforo dei rami i passaggi interrotti e segna ai garofani d’oro la trama delle mie notti.
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(da Canti barocchi e Gioco a nascondere, Milano, Libri Scheiwiller, 2001)
Lucio Carlo Francesco Piccolo di Calanovella nasce a Palermo nel 1901. Di nobile famiglia, cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (con cui stringe un sodalizio sia umano che intellettuale), dopo il conseguimento della maturità classica frequenta per qualche tempo i salotti letterari, interessandosi anche di spiritismo. Nel 1932 si ritira con i suoi familiari a Villa Piccolo, l’antica residenza di famiglia sita a Capo d’Orlando: qui vive un’esistenza appartata raccogliendo attorno a sé un piccolo cenacolo culturale. I suoi molteplici interessi spaziano dalla poesia alla filosofia, dall’astronomia alla matematica, dai classici greci e latini all’esoterismo. E’ inoltre musicologo e traduttore. Muore a Capo d’Orlando nel 1969.
Lontana dalle influenze neorealiste e neoavanguardiste tipiche degli anni Cinquanta e Sessanta, la poesia di Lucio Piccolo appare improntata ad uno stile barocco denso di elencazioni e di immagini surreali; la musicalità del verso è ottenuta attraverso l’uso di termini aulici e di alcuni elementi originali, come le preposizioni articolate spezzate. Largo spazio è concesso al simbolismo e all’oscurità, con percepibili rimandi al crepuscolarismo. Grande assente dalla sua scrittura è il mondo siciliano, sia per quanto riguarda la lingua che in merito ai contenuti.
Tra le sue raccolte poetiche ricordiamo 9 liriche (1954), Canti barocchi e altre liriche (1956), Gioco a nascondere. Canti barocchi e altre liriche (1960), Plumelia, All’insegna del pesce d’oro (1967).