Alle pendici dell’Etna. 1: Gravina di Catania

Gravina di Catania è uno dei famosi “casali” dell’Etna, anticamente denominato Plachi ( probabilmente da plaghe, campagne). L’attuale toponimo risale alla metà del XVII secolo, quando divenne feudo della famiglia Gravina.

Tra i paesi etnei è forse uno dei più “cittadini”, non solo perchè la sua parte più bassa confina proprio con la città, ma anche per la modernità di gran parte del suo territorio. A me è molto caro: per questo ne ho cercata l’anima più suggestiva. Che risiede, essenzialmente, nel piccolo nucleo storico gravitante intorno alla chiesa madre di S. Antonio di Padova. Qui ho fatto la mia “passeggiata sentimentale” alla ricerca di bellezze ancora intatte, ma che pochi ormai (purtroppo) notano e apprezzano.

Cominciamo proprio dalla chiesa madre, sulla piazza principale. Intitolata a Sant’Antonio di Padova, patrono del paese, risale al 1573 ed è stata ristrutturata nel 1852. L’esterno è degno di nota per alcuni dettagli pregevoli, come la porta in legno scolpito.

Accanto alla matrice sorge un’altra chiesetta, appartenente alle Suore Francescane Missionarie dell’Eucarestia.

Salendo lungo la via Etnea, ovvero la strada che sale verso l’Etna, si incontra un’altra chiesa, che non presenta alcun elemento di identificazione se non l’anno della consacrazione sul portale lavico. Attraverso questo dettaglio, sappiamo che è databile al 1654.

L’edificio si prolunga in un antico corpo di fabbrica: il che potrebbe suggerire anche l’ipotesi di un piccolo complesso monastico. Ma non ho notizie a sostegno, quindi nessuna conclusione (per ora).

Camminando ancora in direzione nord troviamo la chiesetta del SS. Rosario. Graziosa e curata, è del 1870, quindi molto più recente rispetto alle altre. Nella facciata, la semplicità dell’impianto è ravvivata da pochi decori sobri che conferiscono gusto ed eleganza.

Subito dopo c’è una piazzetta alberata molto particolare: vi troneggiano un vecchio cannone e il monumento ai caduti gravinesi della Grande Guerra.

Molto bello il parco comunale con l’annesso anfiteatro, la rinomata “Villa di Gravina”, da moltissimi anni location privilegiata di eventi e servizi fotografici.

Questo bel posto affaccia sulla via Roma, una strada interna caratterizzata dalla presenza di molti altarini sacri e della deliziosa chiesetta di San Giuseppe.

Eretta nel XVIII secolo, era stata originariamente dedicata alle anime del purgatorio e conosciuta con il nome popolare di “Chiesa e morti”.

Come quella della chiesa madre, anche la porta lignea di questa chiesa è scolpita con grande finezza. Nei riquadri sono raffigurate scene della vita di San Giuseppe. Il paese vanta una tradizione d’eccellenza nella lavorazione artistica del legno grazie ai monaci benedettini del convento di Sant’Antuneddu, sito al confine tra Gravina e Mascalucia.

In altre occasioni ho parlato della forte spiritualità delle genti etnee: ecco, questo piccolo centro storico ne è una testimonianza evidente. Non solo per l’alta concentrazione di edifici di culto, ma anche per le belle edicole votive, che si incontrano praticamente ad ogni passo.

Alcune sono antiche, altre modernissime: ciò che le accomuna è la cura amorevole con cui sono mantenute. Molte sono dedicate alla Madonna, qualcuna al Sacro Cuore di Gesù. Presente è anche San Pio da Pietralcina, a cui è stato intitolato un piccolo giardino pubblico. Non manca, naturalmente, il patrono Sant’Antonio di Padova.

Una grande statua di Sant’Antonio di Padova, protetta da una teca, benedice tutti quelli che dal paese salgono verso la Montagna attraverso la via Gramsci.

L’affettuosa devozione dei gravinesi al loro Santo si esprime anche nella grandiosità con cui viene organizzata ogni anno la festa patronale (13 giugno).

Donatella Pezzino

Tutte le foto sono dell’autrice.

La basilichetta paleocristiana di Palagonia

Nel territorio di Palagonia (CT), immersi nella natura, si possono ancora ammirare i ruderi di un singolare edificio di culto. Si tratta della basilichetta paleocristiana di San Giovanni, di cui restano l’abside a calotta e due sezioni di arcate laterali poggianti su colonne.

Secondo gli studi effettuati da Guido Libertini alla metà del secolo scorso, la datazione della struttura non può essere più antica del V secolo. Scrive in proposito lo studioso: “La chiesetta in questione non solo aveva una sola navata ma era uno dei rari esempi di basiliche aperte lateralmente, cioè che invece di muri perimetrali presentavano degli archi i quali potevano eventualmente essere chiusi da porte in legno, o latri, o da tendaggi, e probabilmente erano circondate da una area recinta (cortile o giardino)”.

L’estrema semplicità dell’architettura fa pensare subito ad una tipica chiesetta rurale, piccola (forse troppo per contenere i fedeli), a pianta rettangolare e ad una sola navata (lunga circa 10,7 metri, secondo il Libertini). Tuttavia, le condizioni dei resti non consentono di stabilire con certezza che aspetto avesse l’edificio originario e quali fossero le sue dimensioni. Le aperture laterali avrebbero effettivamente ovviato all’angustia dello spazio interno, permettendo all’uditorio di seguire le funzioni restando all’esterno.

Non tutti gli studiosi sono concordi con le conclusioni del Libertini, sia per quanto concerne l’epoca di costruzione, sia in merito all’impianto architettonico. Alcuni spostano in avanti la datazione, al VII o addirittura fino al XII secolo, periodo in cui il sito sarebbe appartenuto ai Cavalieri di San Giovanni. Altre voci ammettono l’esistenza di muri perimetrali, facendo cadere l’ipotesi delle aperture laterali: ciò permette di non escludere la possibilità che le attuali rovine potessero far parte di una struttura più ampia.

Donatella Pezzino

La foto di apertura è da booking.com, le altre da Tripadvisor.

Fonti:

Siculorum Gymnasium

L’Università di Catania (o Studium Generale, o anche, a partire dal XVI secolo, Siculorum Gymnasium) è la più antica università della Sicilia.

Il 24 ottobre del 1434, re Alfonso il Magnanimo concedeva l’istituzione di uno Studium Generale a Catania. In questo modo, la città veniva compensata della perdita della corte, da poco trasferita a Palermo.

Promotori della nuova fondazione furono i consiglieri regi Adamo Asmundo e Battista Platamone.

L’università era autorizzata a tenere insegnamenti di teologia speculativa, dogmatica e morale; di diritto civile, canonico e feudale; di istituzioni romane, medicina, chirurgia, filosofia, logica, matematica ed arti liberali.

Poteva inoltre conferire in esclusiva lauree, baccellierati (baccalauream) ed altre licenze (simili a diplomi professionali). Gli allievi degli altri collegi siciliani, quindi, dovevano necessariamente presentarsi a Catania per poter conseguire i titoli.

Ciò significava che, in Sicilia, solo la laurea dello Studium di Catania dava il diritto di accedere alle cariche della magistratura e di esercitare le professioni di medico e di chirurgo.

Tale privilegio poneva l’università di Catania sullo stesso piano degli atenei più rinomati dell’epoca, come Bologna e Salamanca.

Nei secoli successivi, per varie motivazioni, questo prestigio conobbe alterne vicende, fino a ridimensionarsi progressivamente con l’emergere di altre università siciliane e con le limitazioni imposte dalle leggi post unitarie.

Il primissimo edificio destinato alle attività dello Studium (XV secolo) sorgeva accanto alla Cattedrale, nel sito dell’attuale palazzo del Seminario dei Chierici (oggi Museo Diocesano).

Nel corso del XVII secolo, il Siculorum Gymnasium fu trasferito nei pressi dell’attuale piazza Università, all’interno del vecchio ospedale San Marco. Questo fabbricato fu poi distrutto dal sisma del 1693.

Studenti e docenti si spostarono allora in una struttura provvisoria alla Marina, in attesa dell’edificazione di quello che resterà definitivamente il Palazzo dell’Università.

I lavori iniziarono nel 1696 e terminarono nella seconda metà del Settecento.

Coerente con la sua destinazione d’uso, la costruzione ha uno stile sobrio ed elegante, pur con la presenza di elementi dalla forte impronta barocca.

Bellissimo il pavimento del chiostro interno, realizzato con la particolare tecnica dell’acciottolato e tutto giocato sull’effetto cromatico della pietra lavica accostata al calcare bianco dei disegni floreali e geometrici.

La realizzazione del palazzo si deve in massima parte all’architetto palermitano Giovanni Battista Vaccarini, grande artefice della rinascita catanese post terremoto.

Altri contributi vengono da Giuseppe Palazzotto, da Francesco e Antonino Battaglia e dal pittore Giovan Battista Piparo.

Nel corso del XX secolo, a questa sede si aggiungeranno altri distaccamenti, e alcune facoltà saranno dislocate in altre sedi, fra cui il Monastero dei Benedettini e Villa Cerami.

Al primo piano troviamo la prestigiosa biblioteca regionale universitaria, fondata per iniziativa dell’abate Vito Maria Amico nel 1755. Al suo interno sono conservati fondi antichi e prestigiosi, come quelli provenienti dai collegi gesuiti soppressi.

Donatella Pezzino

Tutte le foto sono dell’autrice

Fonti:

  • Wikipedia
  • Enciclopedia di Catania diretta da Vittorio Consoli, Catania, Tringale Editore, 1987, II vol., pp.736-739
  • Guglielmo Policastro, Catania nel Settecento, Torino, SEI, 1950
  • Vito M. Amico, Catana Illustrata, Trad. di Vincenzo di Maria, Catania, Tringale, 1990, II vol. pp199-200
  • https://catania.italiani.it/pavimento-palazzo-universita/

Architettura barocca: la facciata della “Collegiata” di Catania

“Un solo pensiero di gratitudine rivolto al cielo è la migliore delle preghiere.”

Gotthold Ephraim Lessing

Catania, prospetto della Regia Basilica Collegiata di Maria Santissima dell’Elemosina

1768

Architetto: Stefano Ittar (1724–1790)

Foto D.Pezzino

La chiesa della Badia di Sant’Agata a Catania

Tra gli edifici catanesi più belli ricostruiti dopo il terremoto del 1693, un posto privilegiato spetta alle opere di Giovan Battista Vaccarini (Palermo, 1702 – Catania, 1768) e, in particolare, alla piccola ma sontuosa Badia di Sant’Agata. La chiesa sorge in via Vittorio Emanuele, di fronte all’entrata laterale del Duomo. All’edificio si accede attraverso una cancellata artistica con la scritta “Divae Agathae Ob Patriam Liberatam” (A Sant’Agata per la liberazione della patria) e una scalinata in pietra lavica. Stupenda la facciata barocca, adornata con colonne, angeli, fregi, gelosie e un originale motivo a frangia merlettata; dalla cupola, oggi accessibile ai visitatori, si può ammirare il panorama dell’intera città.

In fase di progettazione, l’insigne architetto palermitano – grande ammiratore del Bernini e del Borromini – si ispirò alla chiesa romana di Sant’Agnese in Agone. La costruzione iniziò nel 1735 e si concluse nel 1767; la consacrazione venne effettuata solo più tardi, nel 1797, dal vescovo Corrado Maria Deodato. Il Vaccarini non accettò alcun compenso dalle monache, ma offrì la chiesa alla Santuzza come atto di devozione.

La chiesa ha una planimetria a croce greca allungata iscritta in un ovale; intorno allo splendido pavimento bicolore a disegni geometrici girano cinque altari in marmo giallo con altrettante statue in stucco lucido raffiguranti Sant’Agata (altare maggiore), sant’Euplio, San Giuseppe, l’Immacolata e San Benedetto. Le pareti semplicemente intonacate, senza affreschi, mettono in risalto la preziosità dei marmi.

Sotto l’ampia cupola che riempie di luce tutto l’interno fanno bella mostra raffinati archi con iscrizioni e decori di putti; più giù, intervallata da vetrate e gelosie, corre una lunga ringhiera in ferro lavorato a formare tanti candelieri. Dal centro della cupola pende uno scenografico lampadario che manda magnifici riflessi.

La chiesa apparteneva al complesso monastico delle benedettine di Sant’Agata, fondato nel 1612 (o nel 1620, secondo alcune fonti) dal milite genovese Erasmo Cicala. Al momento della fondazione, il gentiluomo mise a disposizione della nascente comunità religiosa un suo caseggiato, che sorgeva sullo stesso sito attuale. In questa prima fase, il convento era intitolato a Santa Zita e doveva seguire la regola di San Francesco di Paola. Ma ebbe scarso successo, e restò vuoto di monache fino alla seconda metà del secolo, quando la sorella del Cicala, Elisabetta, impose un cambiamento radicale, modificando sia la denominazione che la regola.

Con la dedicazione a Sant’Agata e il passaggio all’Ordine benedettino, finalmente il monastero cominciò a popolarsi, suscitando l’interesse di molte casate nobiliari e diventando in breve tempo uno dei più ricchi e prestigiosi di Catania. La chiesa si arricchì di elementi architettonici, stucchi, dipinti, arredi e preziosi giogali, la maggior parte dei quali andò dispersa con il sisma del 1693.

All’indomani del terremoto, le monache superstiti riuscirono a recuperare dalle macerie della vecchia chiesa alcuni elementi (qualche candeliere, un quadro di Sant’Agata, alcuni calici d’argento) che andarono a costituire lo scarno arredo di una transitoria chiesetta in legno. Questa soluzione provvisoria servì alle necessità del culto fino alla costruzione della Badia.

Nel progetto della nuova chiesa, Giovan Battista Vaccarini dedicò moltissima attenzione alle esigenze di una comunità che, pur vivendo in stretta clausura, non trascurava il rapporto con la sua città e con la società laica. Per questo, l’architetto dotò la chiesa di molti punti di contatto con il mondo esterno, come le gelosie (dalle quali le monache potevano osservare non viste le processioni e gli eventi che si svolgevano all’esterno) e le aperture di comunicazione tra chiesa e monastero, come la bellissima grata posta sotto la cappella del Santissimo Crocifisso.

Vicino all’entrata laterale della chiesa si può ancora oggi osservare il piccolo comunichino attraverso il quale le religiose ricevevano la Santa Comunione.

Nel Settecento ogni comunità di monache catanesi aveva un suo soprannome, forgiato in ambito popolare sulla base di una caratteristica peculiare. Alle benedettine di Sant’Agata toccò l’appellativo di “mommi”, che sta ad indicare un’eccessiva bontà. A distinguere fra loro le monache catanesi non c’erano solo i comportamenti e il temperamento, ma anche alcune particolari abilità. Come le clarisse erano famose per la confezione di dolci, così le benedettine di Sant’Agata lo erano per la loro bravura artistica: da uno storico del secolo scorso, ad esempio, ci giunge notizia di un piccolo capolavoro, un originale presepe fatto di conchiglie e gusci di telline, realizzato dalle stesse monache e gelosamente custodito nella cantoria della Badia.

Dopo la soppressione delle corporazioni religiose decretata dalla legge del 7 luglio 1866, il complesso monastico di Sant’Agata venne confiscato dal nuovo Stato Italiano. Le monache che non avevano una famiglia alla quale tornare poterono restare, ma ad alcune condizioni. Potevano, ad esempio, abitare solo alcuni locali del convento: il resto era occupato da uffici dell’amministrazione comunale. Private dei loro beni e delle loro rendite, le suore vissero da quel momento in condizioni di estrema indigenza: l’ultima di loro morì, molto anziana e poverissima, nel 1929.

Mentre la chiesa della Badia è giunta fino a noi in tutto il suo splendore, il convento è stato rimaneggiato più volte, ed ha ospitato le più disparate attività (l’ultima delle quali un centro sociale) con scarso riguardo per la sua tutela. Recentemente, è stato avviato un progetto di recupero che ne prevede il restauro e la destinazione a centro di accoglienza turistica.

Donatella Pezzino

Tutte le foto sono dell’autrice

Fonti:

  • Donatella Pezzino, Le murate vive. I monasteri femminili di clausura a Catania dopo il terremoto del 1693, Acireale, Bonanno, 2004.
  • Giuseppe Rasà Napoli, Guida alle chiese di Catania, Catania, Tringale, 1984 (da un’edizione del 1900).
  • Guglielmo Policastro, Catania prima del 1693, Torino, SEI, 1952.
  • Guglielmo Policastro, Catania nel Settecento, Torino, SEI, 1950.
  • Salvatore Boscarino, La chiesa della Badia di Sant’Agata a Catania, in “Quaderno dell’Istituto di Disegno, Università degli Studi di Catania, A.A. 1963-1964.