Sopravvissuti all’abbandono: Villa Daniele a Mascalucia

Villa Daniele è un’antica dimora nobiliare, originariamente concepita come residenza di villeggiatura. Sorge nel territorio di Mascalucia (CT), in via Etnea, a poca distanza dal cimitero. Secondo le fonti, la sua costruzione risalirebbe alla seconda metà dell’Ottocento.

Il primo proprietario, il barone Francesco Paolo Daniele, la fece edificare al centro di una vasta tenuta di cui oggi resta solo una porzione di giardino rivolta verso sud.

A chiunque lo osservi sotto il profilo della sicurezza, l’edificio appare esageratamente esposto: parte del prospetto, coincidente con le stanze ai piani superiori, affaccia infatti direttamente sulla strada, senza muri di cinta o altri sistemi difensivi. Questa vulnerabilità l’ha reso per anni una facile preda per intrusioni di ogni tipo, soprattutto a scopo vandalico.

Alla morte del barone, la villa passò al figlio Oreste, che la rivendette alla sorella Elettra e a suo marito, il gentiluomo Adolfo Pantano. In seguito ad un rovescio di fortuna, i Pantano vendettero la proprietà a Don Nunzio Paci, la cui moglie si ammalò e morì di tisi contagiando i figli e altre persone di famiglia. L’aura di morte che gravava sulla casa fece sì che Villa Daniele venisse chiusa e disabitata per tanti anni; probabilmente è a questi eventi che va ricondotta l’origine dei racconti su una presunta presenza di spiriti. Nonostante ciò, successivamente la villa ha avuto altri proprietari.

Dalla dott.ssa Maria Grazia Sapienza, profonda conoscitrice della storia di Mascalucia, sappiamo che nel 1930 la Villa fu acquistata dal barone Rapisardi “che la rese un simbolo di bellezza architettonica e che, intorno al 1980, stante l’età avanzata decise di vendere i suoi immobili di Mascalucia ed anche tale edificio con annesso grande spazio a verde e scuderie trasformate in cantina di vini, che venne acquistato da tali F.lli Gennaro di Paternò, costruttori edili. Fino a pochi anni prima abitarono nella zona bassa della Villa (semicantinato ) due sorelle nubili, Mara ed Amalia che svolgevano le funzioni di custodi e donne di fiducia che accudivano i padroni quando venivano da Firenze”.

Molto ampia (16 stanze), Villa Daniele era composta, come ci ragguaglia la stessa fonte “da piano a quota giardino con ampi locali ed accessori oltre a cucine, grande forno camino, cisterna per riserva idrica e da piano superiore, cosiddetto nobile con ampi locali di rappresentanza e ricevimento, nonché da grande balconata a livello, che si affaccia sulla via Etnea, delimitata da pilastrini in pietra bianca arenaria con interposte ringhiere forgiate con lavorazioni artistiche”. I resti di un elegante caminetto ritrovati in una delle camere al piano superiore sono indizio di una temperatura piacevolmente fresca anche nei mesi più torridi, ragion per cui Mascalucia, appunto, rappresentava all’epoca uno dei posti ideali per trascorrere l’estate.

Dopo il fallimento dell’attività dei F.lli Gennaro, la Villa fu messa all’asta e, prima degli anni 2000, acquistata dalla famiglia Di Medico, che la restaurò per utilizzarla in periodi stagionali. Pochi anni dopo il restauro ebbi la fortuna di fotografarla. Ecco come si presentava:

Purtroppo, le frequenti assenze dei proprietari e l’insufficiente sistema di vigilanza e difesa lasciarono l’immobile in balia dei vandali, che fecero scempio di mobili e suppellettili. Nel 2017, un incendio (probabilmente scaturito dall’ennesimo atto vandalico) distrusse tutte le volte decorate ed il tetto ligneo.

Anche da rudere, però, la casa mantiene intatta la sua magnificenza: segno che chi offende la bellezza non la uccide, perde solo la capacità di vederla.

Probabilmente alimentate per scoraggiare le intrusioni, le dicerie sugli spiriti trovano credito ancora oggi, avvolgendo di mistero l’antica dimora e giustificandone lo stato di abbandono in cui versa da tanti anni. Le più diffuse affermano che la casa sarebbe passata da un proprietario all’altro e rimasta disabitata per gran parte della sua esistenza proprio perchè infestata e quindi impossibile da abitare. Secondo alcune di queste voci, chiunque si avvicini alla casa nelle ore notturne può sentire rumori, odori e lamenti strani provenire dall’interno. Anni fa si diffuse addirittura la notizia dell’apparizione dello spirito di un bambino.

La più affascinante di queste storie, tuttavia, riguarda uno dei primi, aristocratici proprietari, che si sarebbe tolto la vita a causa di un amore non corrisposto; un’anima afflitta e senza pace che vagherebbe ancora fra le mura dove si consumò il suo dramma. Secondo ipotesi non confermate, la sepoltura dell’infelice barone si troverebbe ancora nei sotterranei della casa.

Ecco come si presentava la Villa nel momento del suo massimo splendore. La foto (fornita da Francesco Zappalà alla redazione di Mascaluciadoc.org) risale all’ultimo decennio del XIX secolo: fu scattata da Oreste Daniele, figlio del primo proprietario, che aveva l’hobby della fotografia.

Io ho potuto fotografare la villa solo dall’esterno, ma un gruppo di giovani ardimentosi ha avuto, qualche anno fa, la possibilità di esplorare l’interno, realizzando una bellissima e dettagliata (ma anche rischiosa, viste le condizioni pericolanti di alcune parti) visita guidata. Ecco il video:

Ringrazio mia sorella Romina che mi ha fornito la maggior parte delle fonti e supportato nella realizzazione degli scatti.

Donatella Pezzino

Fonti:

Goliarda Sapienza

Come fu che imparasti a trasmutare
quel dolore di donna che le membra
contorce in quel bianco calore
che dal seno
alle spalle di commuove.

Tu cancelli il tremore delle labbra
con lacche rosse con risa ma nei silenzi
lo si sente gridare nelle dita
di quei rami protesi
contro i muri notturni che tu ami
nelle lame sferrate nel fogliame
lame aguzze di neon che le tue mani
brevi mani agitate di ragazzo
tagliano
ma tu neghi il dolore con merletti
e mi guardi negli occhi dove l’asfalto
si scompone in un cielo
nero di pece.

(da a T.M.)

*

Separare congiungere
spargere all’aria
racchiudere nel pugno
trattenere
fra le labbra il sapore
dividere
i secondi dai minuti
discernere nel cadere
della sera
questa sera da ieri
da domani

*

È compiuto. È concluso. È terminato.
È consumato l’incendio. S’è fermato.
S’è chiuso il cerchio pietrificato.
Il tempo s’è fermato. È consumato
il delitto. S’è bruciato
il ricordo. L’ansia è cessata.
Una coltre di lava ha mormorato
ogni cranio ogni orbita svuotata.
Ogni bocca nel grido ha sigillato.

S’è chiuso il cerchio. Niente osa varcare
il silenzio di lava. Le formiche
girano intorno al rogo spento impazzite.

*

Vedi non ho parole eppure resto
a te accanto. Non ho voce eppure
muovo le labbra. Non ho fiato eppure
vivo e ti guardo. E forse è questo
che volevo da te, muta restare
al tuo fianco ascoltando la tua voce
il tuo passo scandire le mie ore.

*

Il monte il mare
i fiumi
del tuo ventre
le albe
della tua fronte
questo vorrei ritrovare

*

Un’altra fiaba

I corpi disseccati dei defunti
s’aggirano intorno a noi. Nelle sere
ci camminano a fianco per la strada
si piegano su noi quando leggiamo
ci guardano da lontano se parliamo
con l’amica, sedute fuori dall’uscio.
Hai paura del loro
sguardo d’un tempo?
Anch’io ho paura ma temo
anche di respirare nel sonno
per non disperdere
all’aria la carta velina dei loro
visi intenti al nostro sostare
fra l’alba e il giorno di questa
ora carnale.

*

Messaggio

All’alba sono entrati
in due dalle imposte socchiuse
hanno posato sul tavolo una pietra
una scatola chiusa un pezzo di pane

Oggetti d’ombra le tue occhiaie
brinate dalla sera in agguato
le tue mani dal lutto della notte agitate

Dalla cima del tuo grido
ora dovrai discendere in quest’albore
di vetri vagare

Chi segui? Chi ti chiama? Non ascoltare
il grido del tramonto sfracellato
nell’ombra del cortile
il cerchio del tuo gesto
nella sabbia devi tracciare

Nell’ombra del tuo petto accartocciato
il verme scava fra i tendini le vene
si nutre del tuo sangue
della saliva si abbevera

Innestato allo scheletro quel pianto
scordato
ramifica fra i tendini, le vene
raggelando il tuo gesto il tuo calore.

*

Un volo e in un attimo la stanza
fu colma d’un sentore acre d’estate.
La tua voce si spense con la luce
che moriva nel nero del fogliame.
Un fiato caldo alitava ci cingeva
e restammo supine ad aspettare.

*

A mia madre

Quando tornerò
sarà notte fonda
Quando tornerò
saranno mute le cose
Nessuno m’aspetterà
in quel letto di terra
Nessuno m’accoglierà
in quel silenzio di terra

Nessuno mi consolerà
per tutte le parti già morte
che porto in me
con rassegnata impotenza
Nessuno mi consolerà
per quegli attimi perduti
per quei suoni scordati
che da tempo
viaggiano al mio fianco e fanno denso
il respiro, melmosa la lingua

Quando verrò
solo una fessura
basterà a contenermi e nessuna mano
spianerà la terra
sotto le guance gelide e nessuna
mano si opporrà alla fretta
della vanga al suo ritmo indifferente
per quella fine estranea, ripugnante

Potessi in quella notte
vuota posare la mia fronte
sul tuo seno grande di sempre
Potessi rivestirmi
del tuo braccio e tenendo
nelle mani il tuo polso affilato
da pensieri acuminati
da terrori taglienti
potessi in quella notte
risentire
il mio corpo lungo il tuo possente
materno
spossato da parti tremendi
schiantato da lunghi congiungimenti

Ma troppo tarda
la mia notte e tu
non puoi aspettare oltre
E nessuno spianerà la terra
sotto il mio fianco
nessuno si opporrà alla fretta
che prende gli uomini
davanti a una bara

( poesie tratte da Ancestrale, prefazione e cura di Angelo Pellegrino, La Vita Felice, 2013)

Goliarda Sapienza nasce a Catania nel 1924. Il padre è l’avvocato socialista Giuseppe Sapienza, la madre la sindacalista Maria Giudice, prima dirigente donna della Camera del Lavoro di Torino: il clima familiare nel quale Goliarda si forma, quindi, la educa alla massima libertà mentale e morale, soprattutto nei confronti dell’allora dominante cultura fascista.

Trasferitasi a Roma con la famiglia, Goliarda studia all’Accademia di Arte Drammatica e, per un certo periodo, recita sia in teatro che al cinema. Lascia la carriera di attrice per dedicarsi alla scrittura. Alcune esperienze di vita particolarmente difficili, come una condanna per furto e la detenzione nel carcere di Rebibbia, ne segnano profondamente la produzione letteraria.

Negli ultimi anni della sua vita è docente di recitazione presso il Centro Sperimentale di Cinematografia. Nel 1994 recita nel ruolo di sé stessa nel docufilm “Frammenti di Sapienza” di Paolo Franchi presentato alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Muore a Gaeta nel 1996.

La Goliarda scrittrice ci ha lasciato taccuini, scritti teatrali, epistolari, poesie e scritti di narrativa. Fra questi ultimi, oltre al romanzo di successo L’arte della gioia (terminato nel 1976 e pubblicato postumo), si segnalano interessanti opere di carattere autobiografico, come Il filo di mezzogiorno (1969), L’università di Rebibbia (1983) e Le certezze del dubbio (1987).

In esse, come nei suoi versi, una scrittura semplice, nervosa e irruenta segue il libero flusso di coscienza per scandagliare anima e vita fin nelle pieghe più riposte. Molto particolare il suo stile, nel quale si intrecciano lirismo e realismo, ironia e amarezza, profondità e distacco: un’armonia di contrasti tipicamente siciliana che da lei, però, riceve un’impronta personale e assolutamente unica.

Donatella Pezzino

(Immagine: Piera Nastasi, La spagnola, olio su tela, 1939)

Articolo pubblicato sul “Caffè letterario” di Bibbia d’Asfalto alla pagina:

Dal “Poema Lustrale” di Empedocle

… chi risulta spergiuro per la colpa commessa,
dovrà migrare lontano dai beati, che come demoni longevi hanno raggiunto
la vita, per tre volte diecimila stagioni,
rinascendo attraverso il tempo in molteplici forme di corpi mortali,
permutando i procellosi cammini della propria esistenza.

Così ora sono esule anch’io per il decreto divino, ed errante
affidato all’astio furibondo,…

Perchè la forza dei venti li insegue fino al mare,
e il mare li ributta sul dorso della terra, e la terra contro i raggi
del sole possente, e questo li scaglia nel turbine dei venti:
ognuno dall’altro li riceve e tutti li aborrono.”

(Empedocle, Poema Fisico e Lustrale, ed. a cura di Lorenzo Gallavotti, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, 1991, p.77, v.103.)

Empedocle, nato e vissuto ad Akragas (l’odierna Agrigento) nel V secolo a.C. è stato uno dei più eminenti filosofi presocratici sicelioti.

Il suo pensiero è noto soprattutto per la teoria cosmogonica dei quattro elementi classici (ριζώματα, rizòmata, ovvero “radici”), accanto ai quali egli pone Amore (Φιλότης), principio in grado di mescolarli, e Odio (Νεῖκος), principio della loro separazione.

Influenzato dai pitagorici, Empedocle elaborò un dottrina della reincarnazione e si oppose all’uccisione degli animali, sia a scopo sacrificale che nutritivo. Sembra sia stato l’ultimo filosofo greco ad aver messo per iscritto in versi le sue idee.

La sua morte è avvenuta in circostanze misteriose: secondo alcuni autori antichi, si sarebbe gettato volontariamente nell’Etna.

Donatella Pezzino

(fonte: wikipedia)

Nell’immagine: il mare di Acitrezza (CT), foto D. Pezzino

Morgantina

L’antica città di Morgantina venne individuata per la prima volta alla fine del XIX secolo dall’archeologo Paolo Orsi. Inizialmente si pensò che si trattasse di Herbita; solo successivamente, il ritrovamento di alcune monete permise agli studiosi di arrivare all’identificazione attuale. Il sito si trova presso Serra Orlando, nel territorio di Aidone (EN).

La fondazione risale al XI secolo a.C. e si deve ad un gruppo di Siculi (i Morgeti) guidati dal re Morges. La città, eretta su un’altura circondata da una fertile pianura, verrà poi ingrandita cinque secoli dopo dal coloni calcidesi di Catania.

Nel 454 a.C, il re siculo Ducezio conquista la città; alcuni decenni dopo, Morgantina viene annessa a Camarina e successivamente occupata dai Siracusani. Schieratasi al fianco dei cartaginesi durante le guerre puniche, viene assediata e occupata dai Romani nel 211 a.C.

Dopo la conquista romana, il suo abitato viene ridimensionato, ma la città resta un importante nodo commerciale per la produzione di terrecotte, cereali, olio e vino (ricavato dalla famosa Vite Murgentina).

Da fonti autorevoli come Strabone, Diodoro Siculo e Plinio il Vecchio (le cui testimonianze sono corroborate dai resti archeologici) sappiamo che la città cessa di esistere intorno al 30 a.C., in seguito ad un progressivo abbandono.

Nel sito sono ancora visibili i ruderi di molti dei suoi edifici. Tra i meglio conservati spicca l’anfiteatro, risalente al III secolo a.C.: si trova nella parte bassa, dove sono state rinvenute tutte le più importanti strutture della città ellenistica. Allo stesso secolo sono stati datati il Ginnasio, una fontana monumentale e la Stoà con il magazzino del grano, mentre al periodo romano (II sec. a.C.) risalgono il Macellum e la grande fornace per i mattoni.

Nelle vicinanze dell’anfiteatro si possono osservare l’ekklesiasterion, ovvero l’ampia scalinata che divideva in due parti l’agorà, dove presumibilmente avevano luogo le assemblee cittadine, e gli avanzi di un santuario dedicato a Demetra e Kore.

Particolarmente sontuoso doveva essere il quartiere residenziale: lo testimoniano i resti di alcune ville (come quelle celebri di Ganimede e e del Magistrato) con le loro bellissime pavimentazioni mosaicate, tutt’ora visibili.

La città è stata, nei secoli, più volte saccheggiata sia dai romani che dai tombaroli. Molti dei tesori depredati sono stati poi fortunatamente recuperati e, insieme a quelli delle campagne di scavo, collocati al Museo di Aidone.

Accanto agli oggetti di uso quotidiano, si segnalano reperti di pregiato valore artistico come la splendida Venere in marmo e pietra calcarea, opera di uno scultore della scuola di Fidia, e i 14 pezzi d’argento che ci parlano di una grande floridezza economica e di un ceto sociale abituato ad una convivialità raffinata e costosa.

Le sepolture più altolocate, ma anche le stesse abitazioni patrizie, ci raccontano di una grande passione per il lusso e le cose belle, aspetto che dovette attirare a Morgantina un numero consistente di artisti e maestranze.

La ricchezza di Morgantina proveniva dal suo fiorente commercio e dalla fertilità delle sue campagne, dove prosperavano varie fattorie dedite, appunto, alla produzione di vino e olio e alla coltivazione di orzo e ortaggi.

La presenza del Gymnasium attesta nei morgantinesi una grande vivacità intellettuale, ma anche l’interesse verso altre discipline (come lo sport e l’arte del combattimento).

Il santuario di Demetra e Kore documenta un culto legato principalmente alla terra; a queste due divinità si aggiungevano Apollo (a cui veniva demandata la protezione dei cavalli), Artemide (propizia alla caccia) e naturalmente Zeus.

Donatella Pezzino

Tutte le immagini sono da Wikipedia ad eccezione della Venere (da Pinterest) e degli argenti (proprietà della Regione Siciliana; da http://gogreensicily.blogspot.com/)

Fonti:

  • Wikipedia.
  • Mimmo Chisari, Ducezio e i Siculi, Catania, Boemi Editore, 2009, pp.25-26.
  • Tony Zermo, Come vivevano e come pregavano i morgantinesi, articolo pubblicato su La Sicilia del 3 aprile 2011.
  • Tony Zermo, Morgantina. Alla ricerca della città perduta, articolo pubblicato su La Sicilia del 27 dicembre 2010.
  • Salvatore Spoto, Sicilia antica, Roma, Newton-Compton, 2002.

“Il cigno” di Riccardo Mitchell

Un cigno simbolo del pensiero. L'immagine illustra i concetti chiave della poesia.

Muovi le nivee piume, e l’argentato
Lago, o Cigno, veleggia lievemente:
Somiglia l’ala tua l’immacolato
Pensier che passa in mezzo alla mia mente.
E di candida penna anco è vestito,
E corre un’onda al par tranquilla e pura:
Egli ama al par di te starsi romito
‘Ve più silenziosa è la natura.
Qui son d’effluvi i venticelli pieni.
Qui dorme la laguna, e qui s’infrasca
Il nido, a cui tu fuor dell’acque vieni.
E d’onde aspetti poi che l’alba nasca.
Così nel tempo antico appiè de’ neri
Castelli tremolavano i tuoi stagni:
E alla tarda ora dame, e cavalieri
Quivi di tua quiete eran compagni.
O bianco Cigno, a’ cari intendimenti
Che in me rinnovi del tuo lago accanto
Disposa il suon de’ tuoi molli concenti,
Poi che all’amor tu vivi, e vivi al canto.
Più soave da te la nota fugge,
Allor che di tua vita il dì s’invola.
E quando un’aura imbalsamata sugge
Lo spirto che nel tuo canto sen vola.
Simbol del vate, nella cui ghirlanda
Ogni stilla di pianto ha posto un fiore;
Ei canta peregrin di landa in landa
E con la stanca man su l’arpa muore.

Riccardo Mitchell poeta romantico, intellettuale e patriota, nacque a Messina nel 1815. Di padre irlandese, fu insigne intellettuale e professore di estetica e letteratura e poi, dal 1865 al 1876, rettore dell’Università di Messina. Prese parte attiva ai moti del 1848; dopo l’Unità Italiana gli fu conferita la Medaglia Commemorativa dell’Unità d’Italia. Membro dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti, Riccardo Mitchell fu poeta romantico fra i più interessanti del Romanticismo siciliano. Morì nel 1888. Tra le sue opere maggiori, oltre a diverse traduzioni di Esiodo ed altri autori greci, si annoverano le sillogi poetiche “Ore poetiche” (1842), “Canto e luce” (1872) e “Dalle Melodie” (1884).

Donatella Pezzino

La poesia, tratta dalla raccolta Dalle Melodie (Messina, 1884), è riportata dall’antologia “Poeti siciliani del secolo XIX” a cura di Francesco Guardione, Palermo-Torino, Ed. Carlo Clausen, 1892.

Immagine da Bing