Alle pendici dell’Etna. 2: Mascalucia

Con Mascalucia comincia realmente la salita verso l’Etna: il suo territorio – piuttosto esteso – confina a sud con Gravina di Catania, mentre a nord arriva molto in alto, fin quasi al cimitero di Nicolosi. In passato, i suoi abitanti erano noti nell’interland etneo per il loro buon cuore, tanto da meritarsi l’appellativo di “brava gente di Mascalucia”.

Il centro storico del paese si divide nelle zone bassa e alta, gravitanti attorno alle piazze con le due chiese parrocchiali. Nella prima, ovvero piazza Umberto I, troneggia la grande chiesa dedicata al patrono San Vito martire. La struttura consta di un nucleo settecentesco a cui poi sono state fatte aggiunte successive.

Di fronte c’è il sontuoso palazzo che ospita la biblioteca comunale.

Salendo dritto lungo la via Etnea scorgiamo la seconda piazza con la chiesa madre dedicata a Nostra Signora della Consolazione. Le sue origini sono antecedenti al terremoto del 1693: pare infatti che sia stata edificata nel XVII secolo sul luogo di una chiesetta medievale dedicata a San Nicola di Bari, all’epoca patrono del paese.

Il Santuario della Consolazione è un vero e proprio gioiello. L’esterno associa pietra bianca e pietra lavica, secondo un modello ricorrente nei paesi etnei.

Molto originale il campanile appuntito, con un bellissimo rivestimento a mosaico. L’interno, ricco di pregevoli dipinti (come la Madonna delle Grazie attribuita a Pietro Novelli), è famoso per uno spettacolare altare ligneo scolpito, che si dice opera dei monaci gravinesi di Sant’Antuneddu.

A metà strada fra le due chiese se ne incontra un’altra più piccola: è la chiesetta di san Nicola, oggi auditorium comunale.

Gli antichi altarini di Mascalucia sono una nota dolente. Alcuni sono trascurati, altri già in avanzato degrado. Fortunatamente, per uno dei più belli è in corso un progetto di recupero: si tratta dell’edicola della Madonna di Valverde, in via Roma. Oggi incastonata fra le abitazioni, sembra che anticamente la struttura si trovasse al centro della strada.

Fonti non accertate riferiscono anche che l’immagine originale all’interno fosse dipinta su tavola e che fosse stata incautamente adornata con elementi in oro, poi trafugati. Se così fosse, avremmo una conferma del cuore semplice e buono degli antichi mascalucesi, tanto ingenui da credere che nessun figlio di Maria potrebbe rubare a sua Madre.

Dal corso san Vito, alzando gli occhi si può scorgere un triplo campanile che fa capolino su un’altura. E’ la chiesa tardobarocca della Santissima Trinità, costruita nel XVIII secolo dall’omonima confraternita. Ancor oggi è al centro di una zona silenziosa, fra villini moderni, vecchie case rurali e campagne. Ultimamente è stata restaurata, ma a me piaceva di più prima e quindi preferisco mostrarvi una foto che le ho scattato anni fa.

Nei secoli passati, l’ottimo clima ha fatto di Mascalucia la meta di villeggiatura preferita di tante famiglie “bene”, che qui hanno costruito splendide residenze.

Degni di nota sono in tal senso alcuni palazzetti, come questo su via Roma e il celebre palazzo del barone Rapisardi accanto alla chiesa madre. Ma la più bella è senza dubbio lei: villa Cirelli. Gran parte del suo parco è stato espropriato per realizzare la villetta comunale con l’annesso anfiteatro.

Nelle immediate vicinanze c’è la piazzetta con il monumento ai caduti della Grande Guerra. La colonna porta i nomi di tutti i caduti mascalucesi (tra i quali due miei prozii).

Scendendo verso Gravina, di fronte al cimitero, ecco le vestigia di un’altra bellezza: villa Daniele, di cui ho già parlato ampiamente.

All’interno del cimitero monumentale, merita una visita la chiesetta altomedievale di Sant’Antonio Abate.

E siamo ormai nei pressi del territorio di Gravina, a sud. Qui, il viandante che sta per lasciare Mascalucia è salutato dalla piccola chiesetta di Santa Maria della Pietà.

Da secoli punto di arrivo della processione serale del Venerdi Santo, la chiesetta risale al XVII secolo ed è nata probabilmente dallo sviluppo di una preesistente edicola votiva.

E di fronte, le mie radici: il vicolo con le antiche case della mia famiglia, presente a Mascalucia già alla fine del Settecento.

Donatella Pezzino

La foto dell’interno dell’altarino della Madonna di Valverde è di Giulio Pappa e proviene dal sito http://www.mascaluciadoc.org.

Alle pendici dell’Etna. 1: Gravina di Catania

Gravina di Catania è uno dei famosi “casali” dell’Etna, anticamente denominato Plachi ( probabilmente da plaghe, campagne). L’attuale toponimo risale alla metà del XVII secolo, quando divenne feudo della famiglia Gravina.

Tra i paesi etnei è forse uno dei più “cittadini”, non solo perchè la sua parte più bassa confina proprio con la città, ma anche per la modernità di gran parte del suo territorio. A me è molto caro: per questo ne ho cercata l’anima più suggestiva. Che risiede, essenzialmente, nel piccolo nucleo storico gravitante intorno alla chiesa madre di S. Antonio di Padova. Qui ho fatto la mia “passeggiata sentimentale” alla ricerca di bellezze ancora intatte, ma che pochi ormai (purtroppo) notano e apprezzano.

Cominciamo proprio dalla chiesa madre, sulla piazza principale. Intitolata a Sant’Antonio di Padova, patrono del paese, risale al 1573 ed è stata ristrutturata nel 1852. L’esterno è degno di nota per alcuni dettagli pregevoli, come la porta in legno scolpito.

Accanto alla matrice sorge un’altra chiesetta, appartenente alle Suore Francescane Missionarie dell’Eucarestia.

Salendo lungo la via Etnea, ovvero la strada che sale verso l’Etna, si incontra un’altra chiesa, che non presenta alcun elemento di identificazione se non l’anno della consacrazione sul portale lavico. Attraverso questo dettaglio, sappiamo che è databile al 1654.

L’edificio si prolunga in un antico corpo di fabbrica: il che potrebbe suggerire anche l’ipotesi di un piccolo complesso monastico. Ma non ho notizie a sostegno, quindi nessuna conclusione (per ora).

Camminando ancora in direzione nord troviamo la chiesetta del SS. Rosario. Graziosa e curata, è del 1870, quindi molto più recente rispetto alle altre. Nella facciata, la semplicità dell’impianto è ravvivata da pochi decori sobri che conferiscono gusto ed eleganza.

Subito dopo c’è una piazzetta alberata molto particolare: vi troneggiano un vecchio cannone e il monumento ai caduti gravinesi della Grande Guerra.

Molto bello il parco comunale con l’annesso anfiteatro, la rinomata “Villa di Gravina”, da moltissimi anni location privilegiata di eventi e servizi fotografici.

Questo bel posto affaccia sulla via Roma, una strada interna caratterizzata dalla presenza di molti altarini sacri e della deliziosa chiesetta di San Giuseppe.

Eretta nel XVIII secolo, era stata originariamente dedicata alle anime del purgatorio e conosciuta con il nome popolare di “Chiesa e morti”.

Come quella della chiesa madre, anche la porta lignea di questa chiesa è scolpita con grande finezza. Nei riquadri sono raffigurate scene della vita di San Giuseppe. Il paese vanta una tradizione d’eccellenza nella lavorazione artistica del legno grazie ai monaci benedettini del convento di Sant’Antuneddu, sito al confine tra Gravina e Mascalucia.

In altre occasioni ho parlato della forte spiritualità delle genti etnee: ecco, questo piccolo centro storico ne è una testimonianza evidente. Non solo per l’alta concentrazione di edifici di culto, ma anche per le belle edicole votive, che si incontrano praticamente ad ogni passo.

Alcune sono antiche, altre modernissime: ciò che le accomuna è la cura amorevole con cui sono mantenute. Molte sono dedicate alla Madonna, qualcuna al Sacro Cuore di Gesù. Presente è anche San Pio da Pietralcina, a cui è stato intitolato un piccolo giardino pubblico. Non manca, naturalmente, il patrono Sant’Antonio di Padova.

Una grande statua di Sant’Antonio di Padova, protetta da una teca, benedice tutti quelli che dal paese salgono verso la Montagna attraverso la via Gramsci.

L’affettuosa devozione dei gravinesi al loro Santo si esprime anche nella grandiosità con cui viene organizzata ogni anno la festa patronale (13 giugno).

Donatella Pezzino

Tutte le foto sono dell’autrice.

Sopravvissuti all’abbandono: Villa Daniele a Mascalucia

Villa Daniele è un’antica dimora nobiliare, originariamente concepita come residenza di villeggiatura. Sorge nel territorio di Mascalucia (CT), in via Etnea, a poca distanza dal cimitero. Secondo le fonti, la sua costruzione risalirebbe alla seconda metà dell’Ottocento.

Il primo proprietario, il barone Francesco Paolo Daniele, la fece edificare al centro di una vasta tenuta di cui oggi resta solo una porzione di giardino rivolta verso sud.

A chiunque lo osservi sotto il profilo della sicurezza, l’edificio appare esageratamente esposto: parte del prospetto, coincidente con le stanze ai piani superiori, affaccia infatti direttamente sulla strada, senza muri di cinta o altri sistemi difensivi. Questa vulnerabilità l’ha reso per anni una facile preda per intrusioni di ogni tipo, soprattutto a scopo vandalico.

Alla morte del barone, la villa passò al figlio Oreste, che la rivendette alla sorella Elettra e a suo marito, il gentiluomo Adolfo Pantano. In seguito ad un rovescio di fortuna, i Pantano vendettero la proprietà a Don Nunzio Paci, la cui moglie si ammalò e morì di tisi contagiando i figli e altre persone di famiglia. L’aura di morte che gravava sulla casa fece sì che Villa Daniele venisse chiusa e disabitata per tanti anni; probabilmente è a questi eventi che va ricondotta l’origine dei racconti su una presunta presenza di spiriti. Nonostante ciò, successivamente la villa ha avuto altri proprietari.

Dalla dott.ssa Maria Grazia Sapienza, profonda conoscitrice della storia di Mascalucia, sappiamo che nel 1930 la Villa fu acquistata dal barone Rapisardi “che la rese un simbolo di bellezza architettonica e che, intorno al 1980, stante l’età avanzata decise di vendere i suoi immobili di Mascalucia ed anche tale edificio con annesso grande spazio a verde e scuderie trasformate in cantina di vini, che venne acquistato da tali F.lli Gennaro di Paternò, costruttori edili. Fino a pochi anni prima abitarono nella zona bassa della Villa (semicantinato ) due sorelle nubili, Mara ed Amalia che svolgevano le funzioni di custodi e donne di fiducia che accudivano i padroni quando venivano da Firenze”.

Molto ampia (16 stanze), Villa Daniele era composta, come ci ragguaglia la stessa fonte “da piano a quota giardino con ampi locali ed accessori oltre a cucine, grande forno camino, cisterna per riserva idrica e da piano superiore, cosiddetto nobile con ampi locali di rappresentanza e ricevimento, nonché da grande balconata a livello, che si affaccia sulla via Etnea, delimitata da pilastrini in pietra bianca arenaria con interposte ringhiere forgiate con lavorazioni artistiche”. I resti di un elegante caminetto ritrovati in una delle camere al piano superiore sono indizio di una temperatura piacevolmente fresca anche nei mesi più torridi, ragion per cui Mascalucia, appunto, rappresentava all’epoca uno dei posti ideali per trascorrere l’estate.

Dopo il fallimento dell’attività dei F.lli Gennaro, la Villa fu messa all’asta e, prima degli anni 2000, acquistata dalla famiglia Di Medico, che la restaurò per utilizzarla in periodi stagionali. Pochi anni dopo il restauro ebbi la fortuna di fotografarla. Ecco come si presentava:

Purtroppo, le frequenti assenze dei proprietari e l’insufficiente sistema di vigilanza e difesa lasciarono l’immobile in balia dei vandali, che fecero scempio di mobili e suppellettili. Nel 2017, un incendio (probabilmente scaturito dall’ennesimo atto vandalico) distrusse tutte le volte decorate ed il tetto ligneo.

Anche da rudere, però, la casa mantiene intatta la sua magnificenza: segno che chi offende la bellezza non la uccide, perde solo la capacità di vederla.

Probabilmente alimentate per scoraggiare le intrusioni, le dicerie sugli spiriti trovano credito ancora oggi, avvolgendo di mistero l’antica dimora e giustificandone lo stato di abbandono in cui versa da tanti anni. Le più diffuse affermano che la casa sarebbe passata da un proprietario all’altro e rimasta disabitata per gran parte della sua esistenza proprio perchè infestata e quindi impossibile da abitare. Secondo alcune di queste voci, chiunque si avvicini alla casa nelle ore notturne può sentire rumori, odori e lamenti strani provenire dall’interno. Anni fa si diffuse addirittura la notizia dell’apparizione dello spirito di un bambino.

La più affascinante di queste storie, tuttavia, riguarda uno dei primi, aristocratici proprietari, che si sarebbe tolto la vita a causa di un amore non corrisposto; un’anima afflitta e senza pace che vagherebbe ancora fra le mura dove si consumò il suo dramma. Secondo ipotesi non confermate, la sepoltura dell’infelice barone si troverebbe ancora nei sotterranei della casa.

Ecco come si presentava la Villa nel momento del suo massimo splendore. La foto (fornita da Francesco Zappalà alla redazione di Mascaluciadoc.org) risale all’ultimo decennio del XIX secolo: fu scattata da Oreste Daniele, figlio del primo proprietario, che aveva l’hobby della fotografia.

Io ho potuto fotografare la villa solo dall’esterno, ma un gruppo di giovani ardimentosi ha avuto, qualche anno fa, la possibilità di esplorare l’interno, realizzando una bellissima e dettagliata (ma anche rischiosa, viste le condizioni pericolanti di alcune parti) visita guidata. Ecco il video:

Ringrazio mia sorella Romina che mi ha fornito la maggior parte delle fonti e supportato nella realizzazione degli scatti.

Donatella Pezzino

Fonti:

Goliarda Sapienza

Come fu che imparasti a trasmutare
quel dolore di donna che le membra
contorce in quel bianco calore
che dal seno
alle spalle di commuove.

Tu cancelli il tremore delle labbra
con lacche rosse con risa ma nei silenzi
lo si sente gridare nelle dita
di quei rami protesi
contro i muri notturni che tu ami
nelle lame sferrate nel fogliame
lame aguzze di neon che le tue mani
brevi mani agitate di ragazzo
tagliano
ma tu neghi il dolore con merletti
e mi guardi negli occhi dove l’asfalto
si scompone in un cielo
nero di pece.

(da a T.M.)

*

Separare congiungere
spargere all’aria
racchiudere nel pugno
trattenere
fra le labbra il sapore
dividere
i secondi dai minuti
discernere nel cadere
della sera
questa sera da ieri
da domani

*

È compiuto. È concluso. È terminato.
È consumato l’incendio. S’è fermato.
S’è chiuso il cerchio pietrificato.
Il tempo s’è fermato. È consumato
il delitto. S’è bruciato
il ricordo. L’ansia è cessata.
Una coltre di lava ha mormorato
ogni cranio ogni orbita svuotata.
Ogni bocca nel grido ha sigillato.

S’è chiuso il cerchio. Niente osa varcare
il silenzio di lava. Le formiche
girano intorno al rogo spento impazzite.

*

Vedi non ho parole eppure resto
a te accanto. Non ho voce eppure
muovo le labbra. Non ho fiato eppure
vivo e ti guardo. E forse è questo
che volevo da te, muta restare
al tuo fianco ascoltando la tua voce
il tuo passo scandire le mie ore.

*

Il monte il mare
i fiumi
del tuo ventre
le albe
della tua fronte
questo vorrei ritrovare

*

Un’altra fiaba

I corpi disseccati dei defunti
s’aggirano intorno a noi. Nelle sere
ci camminano a fianco per la strada
si piegano su noi quando leggiamo
ci guardano da lontano se parliamo
con l’amica, sedute fuori dall’uscio.
Hai paura del loro
sguardo d’un tempo?
Anch’io ho paura ma temo
anche di respirare nel sonno
per non disperdere
all’aria la carta velina dei loro
visi intenti al nostro sostare
fra l’alba e il giorno di questa
ora carnale.

*

Messaggio

All’alba sono entrati
in due dalle imposte socchiuse
hanno posato sul tavolo una pietra
una scatola chiusa un pezzo di pane

Oggetti d’ombra le tue occhiaie
brinate dalla sera in agguato
le tue mani dal lutto della notte agitate

Dalla cima del tuo grido
ora dovrai discendere in quest’albore
di vetri vagare

Chi segui? Chi ti chiama? Non ascoltare
il grido del tramonto sfracellato
nell’ombra del cortile
il cerchio del tuo gesto
nella sabbia devi tracciare

Nell’ombra del tuo petto accartocciato
il verme scava fra i tendini le vene
si nutre del tuo sangue
della saliva si abbevera

Innestato allo scheletro quel pianto
scordato
ramifica fra i tendini, le vene
raggelando il tuo gesto il tuo calore.

*

Un volo e in un attimo la stanza
fu colma d’un sentore acre d’estate.
La tua voce si spense con la luce
che moriva nel nero del fogliame.
Un fiato caldo alitava ci cingeva
e restammo supine ad aspettare.

*

A mia madre

Quando tornerò
sarà notte fonda
Quando tornerò
saranno mute le cose
Nessuno m’aspetterà
in quel letto di terra
Nessuno m’accoglierà
in quel silenzio di terra

Nessuno mi consolerà
per tutte le parti già morte
che porto in me
con rassegnata impotenza
Nessuno mi consolerà
per quegli attimi perduti
per quei suoni scordati
che da tempo
viaggiano al mio fianco e fanno denso
il respiro, melmosa la lingua

Quando verrò
solo una fessura
basterà a contenermi e nessuna mano
spianerà la terra
sotto le guance gelide e nessuna
mano si opporrà alla fretta
della vanga al suo ritmo indifferente
per quella fine estranea, ripugnante

Potessi in quella notte
vuota posare la mia fronte
sul tuo seno grande di sempre
Potessi rivestirmi
del tuo braccio e tenendo
nelle mani il tuo polso affilato
da pensieri acuminati
da terrori taglienti
potessi in quella notte
risentire
il mio corpo lungo il tuo possente
materno
spossato da parti tremendi
schiantato da lunghi congiungimenti

Ma troppo tarda
la mia notte e tu
non puoi aspettare oltre
E nessuno spianerà la terra
sotto il mio fianco
nessuno si opporrà alla fretta
che prende gli uomini
davanti a una bara

( poesie tratte da Ancestrale, prefazione e cura di Angelo Pellegrino, La Vita Felice, 2013)

Goliarda Sapienza nasce a Catania nel 1924. Il padre è l’avvocato socialista Giuseppe Sapienza, la madre la sindacalista Maria Giudice, prima dirigente donna della Camera del Lavoro di Torino: il clima familiare nel quale Goliarda si forma, quindi, la educa alla massima libertà mentale e morale, soprattutto nei confronti dell’allora dominante cultura fascista.

Trasferitasi a Roma con la famiglia, Goliarda studia all’Accademia di Arte Drammatica e, per un certo periodo, recita sia in teatro che al cinema. Lascia la carriera di attrice per dedicarsi alla scrittura. Alcune esperienze di vita particolarmente difficili, come una condanna per furto e la detenzione nel carcere di Rebibbia, ne segnano profondamente la produzione letteraria.

Negli ultimi anni della sua vita è docente di recitazione presso il Centro Sperimentale di Cinematografia. Nel 1994 recita nel ruolo di sé stessa nel docufilm “Frammenti di Sapienza” di Paolo Franchi presentato alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Muore a Gaeta nel 1996.

La Goliarda scrittrice ci ha lasciato taccuini, scritti teatrali, epistolari, poesie e scritti di narrativa. Fra questi ultimi, oltre al romanzo di successo L’arte della gioia (terminato nel 1976 e pubblicato postumo), si segnalano interessanti opere di carattere autobiografico, come Il filo di mezzogiorno (1969), L’università di Rebibbia (1983) e Le certezze del dubbio (1987).

In esse, come nei suoi versi, una scrittura semplice, nervosa e irruenta segue il libero flusso di coscienza per scandagliare anima e vita fin nelle pieghe più riposte. Molto particolare il suo stile, nel quale si intrecciano lirismo e realismo, ironia e amarezza, profondità e distacco: un’armonia di contrasti tipicamente siciliana che da lei, però, riceve un’impronta personale e assolutamente unica.

Donatella Pezzino

(Immagine: Piera Nastasi, La spagnola, olio su tela, 1939)

Articolo pubblicato sul “Caffè letterario” di Bibbia d’Asfalto alla pagina:

“E gli occhi vedono” di Marcello Comitini

Fiori colorati nel verde. Primavera. L'immagine illustra i concetti chiave della poesia.

Anche il cielo di primavera si macchia
di grigio bagna lucida esalta
i gialli i bianchi e i rosa
come gioielli incastonati nel verde.
Schiude agli animi ciechi le palpebre
invase dal chiarore e gli occhi vedono
fiorire senza diffidenza
il sogno dell’uomo umiliato e nascosto.

Marcello Comitini, nato a Catania nel 1945, vive da molti anni a Roma.

Poeta e traduttore, è presente in diversi siti letterari; sul suo blog personale Marcello Comitini – Il disinganno prima dell’illusione pubblica i suoi testi poetici in quattro lingue.

Tra le sue pubblicazioni si ricordano le raccolte di poesie “Un ubriaco è morto” (1973), “Formule dell’anima” (2011), “Terra colorata” (2014), “Il fiato del mondo” (2015), “Quarto Giorno” (2018), e la traduzione di “Les Fleurs du Mal” di Charles Baudelaire basata sull’edizione del 1857 (2017).

Nella sua scrittura sono percepibili echi del Crepuscolarismo e del Leopardismo proprio del tardo Romanticismo siciliano; al centro è la poetica del disinganno, ovvero l’uomo con il suo disagio esistenziale, le sue immense solitudini, il grigiore senza scampo delle città tentacolari, la morte di tutte le illusioni, l’anelito all’inafferrabile bellezza della natura e dell’amore.

Donatella Pezzino