Carlo Michelstaedter

Senti Iolanda come è triste il sole
e come stride l’alito del vento –
passa radendo i vertici fioriti
un nembo irresistibile.
Senti, è sinistro il grido degli uccelli
vedi che oscura è l’aria
ed è fuliggine
nel raggio d’ogni luce e dal profondo
sembra levarsi tutto quanto è triste
e doloroso nel passato e tutte
le forze brute in fremito ribelle
contaminarsi irreparabilmente.

*

O vita, o vita ancor mi tieni, indarno
l’anima si divincola, ed indarno
cerca di penetrar il tuo mistero
cerca abbracciare in un amplesso immenso
ogni tuo aspetto. –
Amore e morte, l’universo e ‘l nulla
necessità crudele della vita
tu mi rifiuti.

*

Che ti valse la forte speranza, che ti valse la fede che non crolla
che ti valse la dura disciplina, l’ansia che t’arse il core
o mortale che chiedi la tua sorte, se dopo il tormento diuturno
se dopo la rinuncia estrema – non muore la brama insaziata
la forza bruta e selvaggia, se ancora nel tedio muto
insiste e vivo ti tiene; – perché tu senta la morte
tua ogni istante nell’ora che lenta scorre e mai finita
perché tu speri disperando e attenda ciò che non può venire
perché il dolore cieco più forte sia del dolore che vide
la stessa vanità di sé stesso? – Tu sei come colui che nella notte
vide l’oscurità vana ed attese da dio chiedendo la divina luce
e d’ora in ora il fiero cuor nutrendo
di più forte volere e la speranza
esaltando più viva, quando il giorno
con la luce pietosa
alla vita mortale
ogni cosa mortale riadulava
non ei si scosse che con l’occhio fiso
vedeva pur la notte senza stelle. –
Come il tuo corpo che il sole accarezza
gode ed accoglie avido la luce
perché non anche l’animo rivolgi
ai lieti e cari giochi? Vedi intorno
fin dove giunge il guardo, la campagna
ride alla luce amica.

*

Da Aprile

O vita, chi ti vive e chi ti gode
che per te nasce e vive ed ama e muore?
Ma ogni cosa sospingi senza posa
che la tua fame tiene, e che nel vario
desiderar continua si trasmuta.
Di sé ignara e del mondo desiosa
si volge a questo e a quello che nemico
le amica il vicendevole disio,
nemica a quelli pur quando li ami
e ancora a sé per più voler nemica.
Così nel giorno grigio si continua
ogni cosa che nasce moritura,
che in vari aspetti pur la vita tiene –
ed il tempo travolge – e mentre viva
vivendo muor la dïuturna morte.
Ed ancor io così perennemente
e vivo mi tramuto e mi dissolvo
e mentre assisto al mio dissolvimento
ad ogni istante soffro la mia morte.
E così attendo la mia primavera
una ed intera ed una gioia e un sole.
Voglio e non posso e spero senza fede.

*

Cade la pioggia triste e senza posa
a stilla a stilla
e si dissolve. Trema
la luce d’ogni cosa. Ed ogni cosa
sembra che debba
nell’ombra densa dileguare e quasi
nebbia bianchiccia perdersi e morire
mentre filtri voluttuosamente
oltre i diafani fili di pioggia
come lame d’acciaio vibranti.
Così l’anima mia si discolora
e si dissolve indefinitamente
che fra le tenui spire l’universo
volle abbracciare.
Ahi! che svanita come nebbia bianca
nell’ombra folta della notte eterna
è la natura e l’anima smarrita
palpita e soffre orribilmente sola
sola e cerca l’oblio.

*

Amico io guardo ancora all’orizzonte
dove il cielo ed il mare
la vita fondon infinitamente.
Guardo e chiedo la vita
la vita della mia forza selvaggia
perch’io plasmi il mio mondo e perché il sole
di me possa narrar l’ombra e le luci –
la vita che mi dia pace sicura
nella pienezza dell’essere.

E gli occhi tremuli della colomba
vedranno nella gioia e nella pace
l’abisso della mia forza selvaggia –
e le onde varie della mia esistenza
l’agiteranno or lievi or tempestose
come l’onda del mar l’alga marina
che le tenaci aggrappa
radici nell’abisso e ride al sole.–

(da Volo per altri cieli è la mia vita, poesie 1907-1910, Fara Editore, 1996)

Carlo Raimondo Michelstaedter nasce a Gorizia nel 1887. Si trasferisce a Firenze, dove si iscrive alla facoltà di Lettere. Approfondisce soprattutto Platone, i presocratici, la Bibbia, i tragici greci, Petrarca, Leopardi, Ibsen e Schopenhauer. In lui, questi studi contribuiscono in modo significativo alla maturazione di un solipsismo radicale che ha nella tragicità della finitezza umana il suo punto cardine.

Tornato nella sua città natale, Carlo si dedica alla stesura della tesi di laurea (La persuasione e la rettorica). In questo periodo, il suo male di vivere prende decisamente il sopravvento, portandolo al suicidio nel 1910.

Tra le opere più significative che ci ha lasciato si segnalano, oltre alla già citata tesi di laurea, il Dialogo della salute, alcuni scritti su Platone, un Epistolario e diverse poesie.

Michelstaedter non crede in un Dio d’amore, né in un suo riflesso efficace nell’uomo; in questo quadro, la dissoluzione nel nulla è l’unica via d’uscita al dramma dell’esistenza e alla negatività assoluta del mondo. Da tale consapevolezza, la maggioranza del genere umano prova a fuggire attraverso le confortanti illusioni del piacere, del potere, del divertimento, delle convenzioni culturali e sociali, rinunciando così al proprio esserci unico a favore di una “morte nella vita” che è l’alienazione nelle cose.

Strettamente legata al suo pensiero filosofico è la sua poesia, tutta intrisa di pessimismo e nichilismo e nonostante ciò ricca di immagini e di commovente bellezza.

Donatella Pezzino

Immagine: Impressione. Levar del sole, dipinto di Claude Monet, 1872.

Dalla mia rubrica “Caffè letterario” di Bibbia d’Asfalto alla pagina: https://poesiaurbana.altervista.org/carlo-michelstaedter-caffe-letterario/

Armanda Guiducci

Come al sole

Nel grigio universo dei letti a ore
dove il giorno si umilia fra i cavedi
e i cieli murati sui cortili,
tu, gettando le vesti, fosti il sole.

E, come al sole la polverosa luce
esita, attratta, e si scompone,
davanti a te, o nudità splendente,
le succubi stanze dissipavano

il riluttante fruscio delle lenzuola,
le macchie gialle sopra i lavandini,
le squame arrugginite dei bidet,
i rantolii delle parole oscene.

*

Gli occhi

Al mattino, tu porti occhi verdi
come una donna una fresca camicetta
da cui irruente splendore si promette,
di specchio in specchio, sui vetri della strada.
Alti nel viso, e verdi. Li riabbassa
la sera; li rabbuia (e molte pieghe
v’ha inciso intorno l’ombra che scolpisce).
Ma, ora, sono verdi, verdi, verdi …
Verde bellezza alta del mattino.

*

Eclisse

Tremulo filo nel cavo d’una lampada
folgora e spezza, la corsa della luce.
L’estraneità del buio – che interrompe
le curve belle, ogni visione chiara –
fu tra di noi chiarezza fulminata.
Poi, uno sprazzo. Il filo incandescente
si è riteso a brillare. Ora, sappiamo
le intermittenze, le cecità del cuore,
e che niente di intatto, sulla terra,
regge la luce a lungo. Il tramonto,
è del giorno. Il sole, porta l’ombra,
il sole stesso … E interi astri oscura,
a intervalli, il disco d’un pianeta.

*

Uomo

Altro da me in tutto … maschio, estraneo,
altra carne, altro cuore, altra mente,
pure, il mio stesso corpo prolungato,
la voce che si sdoppia, e mi continua:
ciò che si oppone, e ciò che mi compone
come un discorso teso, mai concluso,
o l’altro occhio: il raggio che converge
al rilievo, allo scatto delle cose –
mio necessario opposto, crudele meraviglia
è amare te: godere di due vite
in questa sola, avere doppia morte.

*

Il peso della vita

Quella vallata più bianca della morte …
Ti portavo neve ad aghi, fra i capelli.
Al curvo bacio, volgevi altrove gli occhi
dolorosi. La semprechiusa finestra
ti inquadrava una realtà irreale:
pura, perfetta – nella distesa intatta
dell’inverno. Io – ti schiantavo, col peso
della vita. E, senza osare saperlo,
tu mi odiavi. «Guarda i miei amici» dicesti
brusco a un tratto: tre becchini uccelli immoti,
neroposati sopra il davanzale. «Va.
Ritorna nella vita.» Cosi, pregasti
– fingendo di ignorare … Forse, ignoravi.
Io, ero la vita – che si ama odiando,
se ci sfugge estranea. «Lasciami solo.
Sono stanco. Sono stanco di morire.»

*

I cicli delle primavere

Silenzioso, ambiguamente casto,
giaci … Sembra tu ascolti prepararsi
il mormorante suono delle crescite.
Non esita cosi incerto un fiore
cui aria luce terra ignote forze
diano il privilegio di ingrandire.
Non è concesso a te, dal tuo profondo,
ciascuna volta di fiorire – e basta.
Tu, ciclica primavera, getti il seme
ogni volta più lontano dall’infanzia.

*
L’appuntamento

«Fra dieci anni, è qui l’appuntamento.»

Dieci anni … Che sfida. Breve eternità,
i figli avranno le spalle squadrate,
i vecchi di oggi – disfatti … e noi?
quali altri pesi, pene, porteremo?
E la gente, in che cosa crederà
fra dieci anni? Poi che, pazzo, il tempo,
ora, ingoia uomini e cose
con ingorda furia, e mai la vita
è scorsa più veloce ed effimere
le idee, gli anni che speri sono troppi

per ritrovarci vivi. (Non nel corpo,
dico, nel cuore. Nel cuore capace
di sfide, o di promesse.) Se il corpo
lo potrà, agli anni detti, sarò qui,
ad aspettare – i tuoi occhi di oggi.

(Da Poesie per un uomo, Trieste, Asterios Editore, 2018)

Armanda Guiducci, all’anagrafe Armanda Giambrocono, nasce a Napoli nel 1923. Laureata in filosofia a Milano, è allieva di Antonio Banfi. Collaboratrice e direttrice di diverse riviste politiche e letterarie, Armanda vanta dagli anni Cinquanta in poi una multiforme attività culturale, che si riflette in una produzione ricca e varia.

Armanda Guiducci è infatti filosofa, scrittrice, poetessa, critica letteraria, traduttrice, sceneggiatrice; si interessa anche di antropologia, etnologia e psicoanalisi; partecipa attivamente al movimento femminista italiano.

Tra le sue opere più significative si ricordano Il mito Pavese (1967), A colpi di silenzio (1982), Donna e serva (1983), Medioevo inquieto, storia delle donne dal VII al XV secolo (1990) e la silloge poetica Poesie per un uomo (1965). Nei versi di Armanda Guiducci, l’amore raggiunge un’intensità quasi dolorosa, nel tentativo di colmare la distanza abissale e irrimediabile che separa l’uomo e la donna.

Donatella Pezzino

Immagine: Profilo di donna, di Aligi Sassu (circa 1950-59), foto da Artnet

Dalla mia rubrica “Caffè letterario” di Bibbia d’Asfalto alla pagina: https://poesiaurbana.altervista.org/armanda-guiducci-caffe-letterario/

Emilio Praga

Preludio

Noi siamo figli dei padri ammalati;
aquile al tempo di mutar le piume
svolazziam muti, attoniti, affamati,
sull’agonia di un nume.

Nebbia remota è lo splendor dell’arca,
e già all’idolo d’or torna l’umano,
e dal vertice sacro il patriarca
s’attende invano;

s’attende invano dalla musa bianca
che abitò venti secoli il Calvario,
e invan l’esausta vergine s’abbranca
ai lembi del Sudario…

Casto poeta che l’Italia adora,
vegliardo in sante visioni assorto,
tu puoi morir!… Degli Antecristi è l’ora!
Cristo è rimorto!

O nemico lettor, canto la Noia,
l’eredità del dubbio e dell’ignoto,
il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boia,
il tuo cielo, e il tuo loto!

Canto litane di martire e d’empio;
canto gli amori dei sette peccati
che mi stanno nel cor, come in un tempio,
inginocchiati.

Canto l’ ebrezze dei bagni d’azzurro,
e l’Ideale che annega nel fango…
Non irrider, fratello, al mio sussurro,
se qualche volta piango:

giacché più del mio pallido demone,
odio il minio e la maschera al pensiero,
giacchè canto una misera canzone,
ma canto il vero!

*

Ottobre

Un lenzuolo di nebbia avvolge il cielo,
e la pioggia minuta e lenta cade;
le colline lontane han messo il velo,
e di fango si coprono le strade.

Piangono come vedove le biade,
e l’elegìa, battendo stelo a stelo,
addormenta le selve e i nidi invade,
i nidi pieni di piume e di gelo.

Che narrano le goccie ai bruchi erranti?
Alle bucce che dice il vento fioco?
Oh nelle tombe scheletri grondanti,
oh beltà, robustezze, a poco a poco
scioglientisi coll’acqua, e vegetanti!…
E la gente sonnecchia intorno al foco.

*

Vegliando

Ho un Virgilio sul mio bruno scrittoio
legato in vecchio cuoio,
che comperai per memoria di viaggio
da un prete di villaggio;
costui l’avea trovato
frugando in un convento abbandonato.
Tutto pieno di note è il volumetto:
qua e là qualche versetto
della Chiesa all’esametro latino
sposa Sant’Agostino,
e le date monotone del chiostro
vi serba il giallo inchiostro.

Ond’è che a notte, leggendo il poeta
nella mia stanza queta,
balzo repente, e, attonito, perplesso,
parmi di aver lì appresso
il volto aguzzo e smunto,
e l’alito di un monaco defunto
che, scappato dal freddo monumento,
sfiorandomi col mento,
evoca da quei fogli impolverati
i suoi studi passati,
e vi rannoda, palpitando, i fili
degli anni giovanili.

*

da A Vittor Hugo

Per le fuggenti voluttà dell’anima,
per questa lotta acerba,
per l’Ideal che inseguo, e per le lagrime
che Iddio mi serba;

o giovinezza che già muti nome
una pura armonia spirami ancora,
un inno alato;
pria che il verno dal cor salga alle chiome,
prima che tutta la mia bionda aurora,
m’abbia lasciato!

Dammi per poco ancora la vaga aureola
che han presa i disinganni;
il coraggio, la fede, e le vertigini
de’ miei vent’anni!

*

Domus-Mundus – VII

Come un mortale anelava il fuggente
globo di Venere;
e le montagne sotto il dì nascente
parean di cenere.

Era l’ora del sonno, e del dolore,
e dei patiboli;
l’ora che il frate le celle, e l’amore
lascia i postriboli.

L’ora che, errando per la fredda chiesa,
sbadiglia il chierico;
e la matrona si dibatte, appesa
a un sogno isterico.

Dalle cantine stridevano i galli
col canto rauco;
e le lanterne erano sgorbii gialli
sul cielo glauco.

Qualche tempio qua e là si dipingeva
di negre spoglie;
e il pispiglio dei passeri sorgeva
fuor dalle foglie.

Ed era un altro dì fra i dì già sorti
e scesi al tumulo;
un altro giorno che dei giorni morti
correva al cumulo.

*

Da Convento ideale

Se tu fossi seduta al fianco mio
quando pesa su me l’irrevocabile
odio d’Iddio ;
se vedessi i tuoi cari occhi profondi
quando, al vuoto del cor, mi sento un esule
di tutti i mondi;
se la fanfara delle tue parole
mi profumasse di girani e viole
questo povero petto
che sospira all’odor del cataletto…
o donna buona, o fonte d’allegrezza,
o virtù, mansuetudine, e dolcezza,
giuro al demone mio che, per morire,
non mi vorrei pentire,
non cercherei l’estremo sacramento,
non farei testamento,
per morir colla mia sulla tua faccia,
e all’inferno volar dalle tue braccia!

*

A Enrico Junk

Della città, madre di inganni e toschi,
sei stanco, amico, e aneli ai verdi boschi
e a un po’di acqua corrente;
a un po’ di acqua corrente in cui si specchia
la ricciuta fanciulla oppur al vecchia
che ti guarda ridente.

Aneli alla mestizia solitaria
per cui l’arte respiri insiem coll’aria,
coll’aria imbalsamata!
Vuoi della vita frivola l’oblio,
e da lontan già senti il brulichio
di una allegra borgata!

Di una borgata allegra e faccendiera
dove si ciarla da mattina asera
di centomila cose;
dove a ogni angol di muro il sol rischiara
e ombreggia qualche immaginetta cara:
o bimbi, o cenci, o rose.

Dove il paffuto ostier ti accoglie umano,
e la cuoca stringendoti la mano,
par che un bacio ti scocchi.
Dove ti sveglia all’alba il bue che mugge
e la giovenca che il figlio sugge
contempla coi grandi occhi.

Ti sveglia e allor per l’umido sentiero
ti affacci all’alma nudità del vero,
di cui siam casti amanti.
Penna e pennello, un dio v’agita allora!…
su, facciam le valige, Enrico, è l’ora
di diventare erranti.

(Da E. Praga – Opere, a cura di Michele Catalano – Fulvio Rossi Editore – Napoli, 1969)

Emilio Praga nasce a Gorla (MI) nel 1839 da un’agiata famiglia della borghesia industriale. Da giovane soggiorna a lungo a Parigi dove si dedica alla pittura. Ed è proprio la pittura, insieme alla lettura di Baudelaire, Victor Hugo, Alfred de Musset e Heinrich Heine, ad ispirare la sua scrittura fin dagli esordi.

A Milano comincia a frequentare gli ambienti e gli intellettuali legati alla Scapigliatura (Dossi, Conconi, i due fratelli Boito), diventando in breve tempo uno dei principali esponenti del movimento.
Dopo la morte del padre, sopravviene per lui un periodo di gravi difficoltà economiche, a cui reagisce con una vita sregolata e dedita ai vizi. L’ abuso di alcol e droghe mina gravemente la sua salute e lo conduce ad una morte precoce nel 1875.

Fra gli Scapigliati, Praga è il maggior interprete italiano del cosiddetto “maledettismo” di Baudelaire. In perfetto accordo con la poetica della Scapigliatura, la sua poesia mira ad uscire dai tradizionali canoni aulici per penetrare l’intima e reale sofferenza degli uomini: si configura così come un “urlo” contro la società conformista, venale e superficiale, di fronte alla quale il suicidio, la vita dissoluta, il gusto del macabro, la blasfemia e la svalutazione dell’amore romantico diventano mezzi di evasione e di auto-affermazione.

Anticonformista e antiborghese, Praga esaspera i toni di questa rivolta attraverso moduli espressivi più affini al parlato che al linguaggio poetico classico. L’influsso della pittura è evidente soprattutto nelle descrizioni, sempre vivide e fortemente impressioniste. La fuga nel sogno e nella visione rappresenta, in questo contesto, l’unico antidoto ad una realtà meschina e inaccettabile.

Emilio Praga ci ha lasciato le raccolte di poesie Tavolozza (1862), Penombre (1864) e Trasparenze (pubblicata postuma nel 1878), oltre a diversi libretti d’opera e al romanzo Le memorie del presbiterio (anch’esso postumo, 1881).

Donatella Pezzino

Immagine: Le cattive madri, dipinto di Giovanni Segantini, 1894.

Dalla mia rubrica “Caffè Letterario” di Bibbia d’Asfalto alla pagina: https://poesiaurbana.altervista.org/emilio-praga-caffe-letterario/

La “Tela di Sant’Anna” di Pietro Novelli

“Colui che sta ancora sulla terra, ma ha la cittadinanza nel cielo e lassù ammassa tesori poiché ivi ha il suo cuore e porta l’immagine del Celeste, non per il posto che occupa egli non è più sulla terra, ma per le sue disposizioni interiori; e non appartiene al mondo di quaggiù, ma del cielo, e di un mondo celeste migliore di quello.”

Origene, La preghiera

Pietro Novelli detto il Monrealese (Monreale, 1603 – Palermo, 1647), Tela di S.Anna – Presentazione della Vergine Maria al Tempio

Olio su tela

1647

Palermo, Chiesa di San Matteo al Cassaro

Foto da Wikipedia

Alle pendici dell’Etna. 1: Gravina di Catania

Gravina di Catania è uno dei famosi “casali” dell’Etna, anticamente denominato Plachi ( probabilmente da plaghe, campagne). L’attuale toponimo risale alla metà del XVII secolo, quando divenne feudo della famiglia Gravina.

Tra i paesi etnei è forse uno dei più “cittadini”, non solo perchè la sua parte più bassa confina proprio con la città, ma anche per la modernità di gran parte del suo territorio. A me è molto caro: per questo ne ho cercata l’anima più suggestiva. Che risiede, essenzialmente, nel piccolo nucleo storico gravitante intorno alla chiesa madre di S. Antonio di Padova. Qui ho fatto la mia “passeggiata sentimentale” alla ricerca di bellezze ancora intatte, ma che pochi ormai (purtroppo) notano e apprezzano.

Cominciamo proprio dalla chiesa madre, sulla piazza principale. Intitolata a Sant’Antonio di Padova, patrono del paese, risale al 1573 ed è stata ristrutturata nel 1852. L’esterno è degno di nota per alcuni dettagli pregevoli, come la porta in legno scolpito.

Accanto alla matrice sorge un’altra chiesetta, appartenente alle Suore Francescane Missionarie dell’Eucarestia.

Salendo lungo la via Etnea, ovvero la strada che sale verso l’Etna, si incontra un’altra chiesa, che non presenta alcun elemento di identificazione se non l’anno della consacrazione sul portale lavico. Attraverso questo dettaglio, sappiamo che è databile al 1654.

L’edificio si prolunga in un antico corpo di fabbrica: il che potrebbe suggerire anche l’ipotesi di un piccolo complesso monastico. Ma non ho notizie a sostegno, quindi nessuna conclusione (per ora).

Camminando ancora in direzione nord troviamo la chiesetta del SS. Rosario. Graziosa e curata, è del 1870, quindi molto più recente rispetto alle altre. Nella facciata, la semplicità dell’impianto è ravvivata da pochi decori sobri che conferiscono gusto ed eleganza.

Subito dopo c’è una piazzetta alberata molto particolare: vi troneggiano un vecchio cannone e il monumento ai caduti gravinesi della Grande Guerra.

Molto bello il parco comunale con l’annesso anfiteatro, la rinomata “Villa di Gravina”, da moltissimi anni location privilegiata di eventi e servizi fotografici.

Questo bel posto affaccia sulla via Roma, una strada interna caratterizzata dalla presenza di molti altarini sacri e della deliziosa chiesetta di San Giuseppe.

Eretta nel XVIII secolo, era stata originariamente dedicata alle anime del purgatorio e conosciuta con il nome popolare di “Chiesa e morti”.

Come quella della chiesa madre, anche la porta lignea di questa chiesa è scolpita con grande finezza. Nei riquadri sono raffigurate scene della vita di San Giuseppe. Il paese vanta una tradizione d’eccellenza nella lavorazione artistica del legno grazie ai monaci benedettini del convento di Sant’Antuneddu, sito al confine tra Gravina e Mascalucia.

In altre occasioni ho parlato della forte spiritualità delle genti etnee: ecco, questo piccolo centro storico ne è una testimonianza evidente. Non solo per l’alta concentrazione di edifici di culto, ma anche per le belle edicole votive, che si incontrano praticamente ad ogni passo.

Alcune sono antiche, altre modernissime: ciò che le accomuna è la cura amorevole con cui sono mantenute. Molte sono dedicate alla Madonna, qualcuna al Sacro Cuore di Gesù. Presente è anche San Pio da Pietralcina, a cui è stato intitolato un piccolo giardino pubblico. Non manca, naturalmente, il patrono Sant’Antonio di Padova.

Una grande statua di Sant’Antonio di Padova, protetta da una teca, benedice tutti quelli che dal paese salgono verso la Montagna attraverso la via Gramsci.

L’affettuosa devozione dei gravinesi al loro Santo si esprime anche nella grandiosità con cui viene organizzata ogni anno la festa patronale (13 giugno).

Donatella Pezzino

Tutte le foto sono dell’autrice.