La “Tela di Sant’Anna” di Pietro Novelli

“Colui che sta ancora sulla terra, ma ha la cittadinanza nel cielo e lassù ammassa tesori poiché ivi ha il suo cuore e porta l’immagine del Celeste, non per il posto che occupa egli non è più sulla terra, ma per le sue disposizioni interiori; e non appartiene al mondo di quaggiù, ma del cielo, e di un mondo celeste migliore di quello.”

Origene, La preghiera

Pietro Novelli detto il Monrealese (Monreale, 1603 – Palermo, 1647), Tela di S.Anna – Presentazione della Vergine Maria al Tempio

Olio su tela

1647

Palermo, Chiesa di San Matteo al Cassaro

Foto da Wikipedia

Lucio Piccolo

Lunghi tralci, lunghi tralci mi strinsero
mi chiusero le braccia;
specchiavo conca notturna
d’acque montane, sapevo
le radici e le fonti, alla bruma
leggera passavano l’ombre
dei giorni, sorgevano i volti
fra la speranza e il dolore;
ed era tepore primevo
ritorno e infinita carezza.
Ma quando il risveglio
m’apre i mattini e mi posa
su le sponde della luce
reco un balsamo ignoto
un olio che mi fa dolci
le cose, in silenzio consuma,
e mi ridona il mondo
in risonanze, in memorie
(e indugiano i giorni in lenti
meriggi, in vesperi immensi).
Così vado fra gli echi le nuvole e i raggi,
non m’è straniera la spiga
della lavanda che brucia l’aria
o il petalo bianco ai cespugli
furtivi di vento.
Dietro le colline respira
la stagione, scendono i declivi,
ed è così molle il cammino
sui viali dove le svolte
spengono l’ansia dei passi
che gli orizzonti fra i rami
svaniscono, sorgono ancora,
in abbandono di spazio.
Lunghi tralci, lunghi tralci mi strinsero
mi chiusero le braccia
ed era ritorno, promessa;
ma nella luce, nel giorno
ove inclino l’ore al canto
e va l’acqua fievole nella creta che brucia
serbo l’ombra serbo la malia:
mai tace il colloquio nascosto,
mai posa la voce segreta.

*

L’Anima e i prestigi

Ma l’anima confondono i prestigi:
intimidita abbassa la scriminitura
che parte le nere chiome, le palpebre ombrate;
nel cestello ripone la matassa,
gli aghi, il ditale, piega la fioritura
paziente sul bianco, nelle sere.
E la lontana dimora di nuovo l’accoglie:
serbano le scansie tenebrose
pallide ampolle, o, pendenti
in vimini dal soffitto,
e un poco oscillano quando
passa la tramontana; spirare
senti con l’erbe della solitudine, l’altura.
A la tarda ora solo guarda l’alto
abbaino la stella polare.

*

Mobile universo di folate
di raggi, d’ore senza colore, di perenni
transiti, di sfarzo
di nubi: un attimo ed ecco mutate
splendon le forme, ondeggian millenni.
E l’arco della porta bassa e il gradino liso
di troppi inverni, favola sono nell’improvviso
raggiare del sole di marzo.

*

Ombre

Le sognanti, lontane ombre che sono
dietro le tue parole questa notte,
fantastiche o dolenti le portava
la corrente dei giorni, il vento che apre
i colori, ed ognuna il suo segreto
di dolore o di gioia che il destino
segnò e il buio chiude;
e ancora altre ne chiami
che dileguando diedero un’impronta
di lume: la promessa d’un ritorno;
mani che schiusero i riposi,
occhi che riflettevano i meriggi
sotto i rami, le foglie della vite
che il raggio fa vivaci, oh le stormenti
stagioni attorno ai volti, l’ore
che scendevano a noi come in dolcezza
umana fatte miti da uno sguardo:
viva siepe, riparo che fa
sicure in cerchio notti, albe, tramonti,
e come pianamente
rispondevano ad ogni sole
che mai le avrebbe, mai sfiorate il rombo
del mistero; ma in fondo ad ogni svolta
è il dolore, la cenere che tocchi
si riga: brace e sangue.

*

Dove spore di sole
frangono spume in volo
s’aprono all’avventure
vibran spazi marini;
nube corriera allaccia
i promontori e balza
fuga leggera d’echi.
Ma dove già si ferma
l’ombra ne l’alta veglia
di fusti e di fogliame,
sapienza di sorgive
sospesa l’aria incanta.
E nell’alture (male
d’erbe la pietra invade)
già buio di cisterna
pensa colori e forme:
nei sonni scenderanno
reclini su l’ignoto.

*

Di soste viviamo; non turbi profondo
cercare, ma scorran le vene,
da quattro punti di mondo
la vita in figure mi viene.
Non fare che ancora mi colga
l’ebbrezza, ma lascia che l’ora si sciolga
in gocce di calma dolcezza;
e dove era il raggio feroce, ai muri vicini
che celano i passi ed i visi,
solleva una voce improvvisi giardini.

E il soffio è sereno che muove al traforo
dei rami i passaggi interrotti
e segna ai garofani d’oro
la trama delle mie notti.

*

(da Canti barocchi e Gioco a nascondere, Milano, Libri Scheiwiller, 2001)

Lucio Carlo Francesco Piccolo di Calanovella nasce a Palermo nel 1901. Di nobile famiglia, cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (con cui stringe un sodalizio sia umano che intellettuale), dopo il conseguimento della maturità classica frequenta per qualche tempo i salotti letterari, interessandosi anche di spiritismo. Nel 1932 si ritira con i suoi familiari a Villa Piccolo, l’antica residenza di famiglia sita a Capo d’Orlando: qui vive un’esistenza appartata raccogliendo attorno a sé un piccolo cenacolo culturale. I suoi molteplici interessi spaziano dalla poesia alla filosofia, dall’astronomia alla matematica, dai classici greci e latini all’esoterismo. E’ inoltre musicologo e traduttore. Muore a Capo d’Orlando nel 1969.

Lontana dalle influenze neorealiste e neoavanguardiste tipiche degli anni Cinquanta e Sessanta, la poesia di Lucio Piccolo appare improntata ad uno stile barocco denso di elencazioni e di immagini surreali; la musicalità del verso è ottenuta attraverso l’uso di termini aulici e di alcuni elementi originali, come le preposizioni articolate spezzate. Largo spazio è concesso al simbolismo e all’oscurità, con percepibili rimandi al crepuscolarismo. Grande assente dalla sua scrittura è il mondo siciliano, sia per quanto riguarda la lingua che in merito ai contenuti.

Tra le sue raccolte poetiche ricordiamo 9 liriche (1954), Canti barocchi e altre liriche (1956), Gioco a nascondere. Canti barocchi e altre liriche (1960), Plumelia, All’insegna del pesce d’oro (1967).

Donatella Pezzino

Immagine: Childe Hassam, “Il giardino acquatico”, 1909 (da Wikipedia)

Articolo pubblicato sulla rubrica “Caffè letterario” di Bibbia d’Asfalto alla pagina: https://poesiaurbana.altervista.org/lucio-piccolo-caffe-letterario/

“Quando la luna si apre” di Franca Alaimo

Giardino sotto la luna. L'immagine illustra i concetti chiave della poesia.

Quando la luna si apre
come un fiore colmo
bianchissimo, e la vastità
della notte sconfina
in un silenzio attonito,
ti sembra di sentire
come un cigolio
di cancelli dischiusi
(saranno stati gli angeli
o le piccole anime erranti?)
e sai che per un immisurabile
istante ogni cosa è tornata
al suo principio.
Si inebriano di canto
le gole delle allodole
nel primo biancore dell’alba.

Franca Alaimo nasce a Palermo nel 1947. Fra le poetesse italiane più interessanti del panorama letterario contemporaneo, ha al suo attivo una vasta produzione fra raccolte di versi, romanzi, saggi, traduzioni, articoli e recensioni. E’ presente in antologie, riviste e siti letterari; alcune delle sue opere sono state tradotte in varie lingue.

Il suo esordio alla poesia risale al 1991, quando pubblica la silloge Impossibile luna. Tra le sue raccolte poetiche più recenti si segnalano Sempre di te amorosa (LietoColle 2013), Oltre il bordo (Macabor 2020) Sacro cuore (Ladolfi 2020). Sul sito «La Recherche» ha pubblicato in e-book tre sillogi poetiche e un epistolario.

Nella sua scrittura, il linguaggio si fa rivoluzione e al tempo stesso rivelazione: la parola perde la sua staticità, i significati e i moduli espressivi usuali vengono sovvertiti per portare alla luce quell’oltre che il reale cela sotto il velo del sogno; il vuoto e il dolore vengono superati in un “si” che sublima l’esistenza umana in tutte le sue sfaccettature, trasformandola in canto e bellezza.

Poesia di energia e di positività, lo stile di Franca Alaimo attinge dagli accordi e dai contrasti, dalla natura e dal vissuto, per trovare nella loro corrispondenza con l’anima una superiore dimensione di armonia.

Donatella Pezzino

Immagine da Bing

“Fiorano fragili mani” di Daìta Martinez

fiorano fragili mani nostre i
nostri cuori più evidente sia
verità con acqua spromessa
ai confini immersa la radice
del villaggio per allora esile
grazia le girandole bambine
noi a chiocciola innamorate
noi del corpo frugate sperse
tu assenza me fronte di lato

( da La liturgia dell’acqua, Anterem 2021)

Daìta Martinez nasce a Palermo nel 1972. Presente in siti, riviste e antologie letterarie, è attualmente fra le voci femminili italiane più lette e apprezzate.

Recensita da nomi autorevoli del panorama letterario, la sua opera è stata più volte segnalata e premiata. Tra i suoi riconoscimenti più prestigiosi, il Premio Macabor 2019 – sezione raccolta inedita – che ha vinto con il testo ‘a varca di zagara in dialetto siciliano.

Tra le sue pubblicazioni spiccano le raccolte poetiche Dietro l’una (Lietocolle, 2011) La bottega di via alloro (LietoColle, 2013) e La liturgia dell’acqua (Anterem 2021).

Erede della tradizione siciliana più autentica, la poesia di Daìta fa della musicalità tipica del parlato isolano il tessuto attraverso cui si dipana un mondo di odori, suoni, oggetti e colori: un mondo dove il tempo non esiste e anche ciò che appartiene alla memoria si fa presenza palpabile.

E’ la dimensione di simultaneità di quell’io bambino per il quale vita e sogno si identificano, senza per questo fuggire la realtà: tutto, anzi, viene vissuto, accolto e amato ancor più intensamente, con la gioiosa meraviglia di un’infanzia che il disincanto non è mai riuscito a intaccare.

Espressione di questa poetica è la scrittura totalmente scevra da vincoli e regole, nella quale l’assenza della punteggiatura libera il flusso di coscienza dell’anima bambina innamorata della vita.

Donatella Pezzino

Foto da Bing

“E quella dolce speme…” Riscopriamo Lauretta Li Greci

E quella dolce speme, che risplende
Qual iride di pace oltre l’avello,
Mi conforta sovente in sulla terra,
Ov’ io languo qual fior, che innanzi sera
Piega le foglie. Nel materno tetto
In cui vivo solinga, a me dischiusi
Fur dell’arte i misterij e l’armonia
Del bello intesi, che a profano orecchio
Risonar non può mai; nella celeste
Luce del vero s’ispirò la mente,
E ignoto spirto, ch’io comprendo ed amo.
Su di un raggio di stella a me discese:
« E, prendi egli mi disse, o mia diletta,
Prendi quest’ arpa che dal ciel ti reco
Messaggiero di Dio; ma casta e pura
Qual da me la ricevi ognor la serba! »
E tentai quelle corde, e dolci suoni
Ne trassi, amor cantando, e fede, e speme,
Unica meta coi l’uman pensiero
Negli affanni vagheggia e nel dolore.
Or muta è l’ arpa: dal mortai riposo
Chi destarla potrà ? qual man rapirle
Nuovi concenti? Tutta in me già sento
Mancar la vita; più non m’ arde in petto
L’ immensa, arcana, irresistibil fìamma,
Che a cantar m’incitava. Eppur sovente
In quell’ ore solinghe al pianto sacre,
Rammento i dì felici, in cui vegliando
Al fioco lume di notturna lampa
Educava la mente a nobil’opre;
E del cieco di Scio negli immortali
Canti, e di Saffo nelle ardenti note
lo m’ ispirava. La magnanim’ ira
Dell’esul ghibellino; il casto amore
Del cantor di Vaichiusa; il rio destino
Del misero Torquato, e il tardo alloro
Che la sua coronò gelida fronte;
Di Gaspara gli affanni e il disperato
Amor, che innanzi tempo a lei dischiuse
L’avello ; di Vittoria il nobil core,
Ed il casto da lei vedovo letto
Lungamente serbato; ahi tutto allora
Mi destava nel cor sublimi sensi !
E salve, io ripetea, salve o d’Italia
Illustri figli, che in perenne lotta
Colla sventura, intemerata fama
Serbaste e nome altero! Ahi quante volte
Brancolando cercai dentro le vostre
Tombe quel foco animator, che i vostri
Petti infiammava! ahi quante volte attinsi
Da voi nova virtude e forze nove!
Dalla Terra del sol, dalle ridenti
Prode che bagna il limpido Tirreno
A voi mando un saluto! Oh se potessi
A voi congiunta nell’ eterno Amore,
Inebbriarmi, errar di stella in stella.
Tutta goder quella suprema, immensa
Felicità, che invan si cerca in terra;
Quanto lieta sarei! ma forse ancora
Mi rimane a soffrir; forse vicino
Non è quel giorno, in cui, dal suo terreno
Velo disciolta, alle celesti sfere
Spiegherà la mia stanca anima il volo!

(da Canti di Girolamo Ardizzone, Tipografia del Giornale di Sicilia, 1867)

Lauretta Li Greci nasce a Palermo il 15 novembre 1833. E’ poco più che una bambina quando comincia a scrivere e a pubblicare versi. Il suo precoce talento poetico le procura un’immediata fama, insieme all’apprezzamento per la finezza stilistica dei versi e per la dolcezza malinconica delle riflessioni di cui si fanno portavoce.

Nonostante la giovanissima età, Lauretta scrive soprattutto con il pensiero rivolto alla morte: la giovinetta è infatti ammalata di tisi e la consapevolezza della fine imminente non può che permeare in modo significativo tutta la sua scrittura.

Adombrandone ogni parola e ogni afflato, la morte è sempre presente nei suoi versi e li vela di una tenerezza cupa e struggente: un rimpianto che è, insieme, accorato e rassegnato. Lauretta Li Greci muore, non ancora sedicenne, il 3 luglio 1849.

Dotata di una sensibilità non comune e di una cultura notevole per la sua giovane età, la poetessa lascia nella poesia femminile dei suoi tempi un’impronta profonda, tanto da essere ricordata a lungo nei decenni successivi alla sua morte.

A compiangerne la perdita saranno tanti intellettuali e poeti, siciliani e non; un omaggio particolarmente affettuoso le verrà tributato dalla poetessa Rosina Muzio Salvo, che le dedicherà il celebre carme “In morte di Lauretta Li Greci”. Il poeta Ettore Arculeo scriverà di lei: “La sua vita fu quanto il crepuscolo di un giorno e il suo passaggio su questa terra fu come il trasvolare di un angelo fra gli uomini; ella non lambì il lezzo della terra e, fortunata, non arrivò a comprenderne l’impurità e la sozzura“.

Ancora oggi è possibile ammirare il monumento a lei dedicato, opera dello scultore Rosario Anastasi, nella chiesa di San Domenico a Palermo, di fronte alla tomba di un’altra illustre poetessa, Giuseppina Turrisi Colonna. Dimenticata e molto difficile da reperire, invece, è la sua produzione poetica. I versi qui riportati sono contenuti in una silloge poetica dell’amico Girolamo Ardizzone, che così la ricorda:

Conobbe il greco, il latino, il francese, lasciò molte poesie inedite, fra le quali parecchi frammenti di una novella in versi sciolti, Giovanna Greij, e alcune traduzioni di Saffo e di Simonide che furono da me pubblicate nella Rivista Scientifica Letteraria ed Artistica per la Sicilia, anno 1833. Il suo monumento sorge nella chiesa di San Domenico , rimpetto a quello dell’ illustre poetessa Giuseppina Turrisi Colonna, della quale un anno innanzi aveva pianto in dolcissimi versi la immatura perdita.

“E quella dolce speme” fu scritta da Lauretta proprio per l’Ardizzone, che in proposito ci informa:

Questo canto a me diretto dalla Li Greci fu pubblicato per la prima volta nella Rivista scientifica, letteraria artistica per la Sicilia, anno I, 1853. In esso, come negli ultimi suoi versi, campeggia il sentimento malinconico della sua prossima fine e traspariscono sen- sibilmente le sofferenze ond’ era oppressa pel lento morbo che la conduceva al sepolcro.

Fra gli scritti della poetessa si è tramandato anche il frammento della bellissima poesia incompiuta “Alla luna” del 1841 (O amica Luna, che agli afflitti il core/Dolcemente conforti, a te rivolgo/Le mie querele, tu pietosa almeno/A me sorridi…) che, ci testimonia l’Ardizzone, “furono scritti da Lauretta Li Greci un giorno innanzi la sua morte. Stanca dal lungo morbo che la consuma, ella volge i suoi sguardi alla Luna, e l’invoca pietosa ai suoi dolori,e quasi presaga del suo fine, le volge l’ultimo addio. Questo canto,diffuso di una cara malinconia , non fu da lei compito ; forse per le prostrate sue forze non potè rivelare interamente quello slancio sublime dell’ anima, quell’ estrema scintilla di una luce vicina ad estinguersi.”

Donatella Pezzino

Articolo pubblicato su Alessandria Today alla pagina: https://alessandria.today/2023/05/17/poeti-riscopriamo-lauretta-li-greci-poetessa-romantica-di-donatella-pezzino/

Nella foto: La scultura che ritrae la poetessa Lauretta Li Greci, posta sul suo monumento commemorativo al pantheon del convento di San Domenico a Palermo ( da http://www.domenicani-palermo.it/pantheon.html)

Fonti: