“Colui che sta ancora sulla terra, ma ha la cittadinanza nel cielo e lassù ammassa tesori poiché ivi ha il suo cuore e porta l’immagine del Celeste, non per il posto che occupa egli non è più sulla terra, ma per le sue disposizioni interiori; e non appartiene al mondo di quaggiù, ma del cielo, e di un mondo celeste migliore di quello.”
Origene, La preghiera
Pietro Novelli detto il Monrealese (Monreale, 1603 – Palermo, 1647), Tela di S.Anna – Presentazione della Vergine Maria al Tempio
Artefice eterno del mondo, che notti e giorni governi, e il tempo dei tempi disponi, perché il tedio si spezzi,
già canta l’araldo del giorno, sentinella di notte profonda, luce notturna ai viandanti, notte dalla notte separando.
Così il risvegliato Lucifero libera da caligine il cielo, così tutta la schera dei perduti lascia le vie del male.
Così ritrova forze il navigante e le onde si placano, così nel canto lavò la colpa la stessa pietra della Chiesa.
Coraggio, ora leviamoci! Scuote gli inerti il gallo, gli assonnati rimprovera, i renitenti accusa.
Il gallo canta: speranza! Salute di nuovo agli infermi, riposto il pugnale del bandito, torna la fede in chi ha tradito.
Volgiti in chi vacilla, Gesù, e col tuo sguardo emendaci, guardaci: i peccati cadono si scioglie la colpa in pianto.
Tu luce rifulgi nei sensi e scuoti il sonno della mente, te per prima la voce ti loda, in te le labbra schiudiamo.
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Per l’ora sesta
Reggitore potente, vero Dio, che regoli i destini delle cose, che il mattino fai splendere e fiammeggiare il meriggio,
spegni le fiamme delle contese, togli il calore nocivo, dona salute ai corpi e vera luce ai cuori.
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Per l’ora nona
Forza tenace delle cose, Dio, immobile, in te permanente, che fissi i tempi al succedersi della luce diurna,
la sera chiara donaci, perchè mai venga meno la vita, ma premio di morte sacra ci aspetti la gloria perenne.
(Inni tratti dalla raccolta Ambrogio. Inni, Trad. Mario Santagostini, Oscar Mondadori, 1992)
Aurelio Ambrogio (in latino Aurelius Ambrosius) nasce ad Augusta Treverorum nel 339-340 in un’illustre famiglia senatoriale convertita al cristianesimo già da diverse generazioni. Nel 374 viene nominato vescovo di Milano, incarico che manterrà fino alla morte.
Sant’Ambrogio è noto per l’influenza determinante avuta nella conversione di S.Agostino (da lui battezzato nel 387). Nella società contemporanea, però, egli acquisisce un’enorme popolarità soprattutto grazie all’eccezionale santità di vita, alla rigorosa purezza dei costumi e ad un carattere dolcissimo ma allo stesso tempo di grande fermezza.
Queste sue caratteristiche si traducono in una cura pastorale attenta e amorevole e in un’eccezionale capacità diplomatica. Ambrogio, infatti, riesce non solo ad influire su alcune scelte dell’imperatore, ma anche a difendere la sua comunità dai tentativi di ingerenza del potere politico.
Convinto assertore dei valori civili della romanità, li accoglie nel suo pensiero per dar loro un nuovo e più profondo significato alla luce della cultura cristiana. Muore a Milano nel 397.
E’ venerato come santo da tutte le chiese cristiane che prevedono il culto dei santi; insieme a San Girolamo, sant’Agostino e san Gregorio I papa, il cattolicesimo lo annovera tra i quattro grandi Dottori della Chiesa d’Occidente. Teologo, esegeta e profondo conoscitore della Scrittura, è considerato il padre della mariologia occidentale.
Nonostante i gravosi impegni su più fronti, Ambrogio ha scritto moltissimo. Ci ha lasciato scritti ascetici, morali, esegetici, dogmatici, catechetici, epistolari, omiletici e poetici. Gli Inni, composti in dimetri giambici, sono considerati veri e propri capolavori della letteratura latina cristiana e rivestono ancora oggi un ruolo primario nella liturgia.
Ora la notte risale dall’antro, e tutto l’uomo è immerso nel gurgite fondo. Mentre alto e solo il pio espero apre il suo sguardo nel cielo turchino.
A lungo io resto al balcone contemplo le ombre montare le pallide strade del mondo.
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Presto l’inverno
Presto saranno gli alberi essenziali esistenze, e fuori tutto sembrerà di gelo inutile. Così l’anima è ramata nei desideri acuti, ignuda arte.
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O uomo
Ricordi di alba azzurra vanno come fradicie alghe su acqua morta. Ti punge — immemore delle dense ore di Dio — il cuore: e cerchi l’anima con fauci riarse.
Alla tua finestra mangi la cera con denti bianchi e ti circonda amara la carne; dissotto l’acqua ti specchia, enigma di materia cosciente che hai un dorso di secoli e non sei che un attimo immenso.
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Sosta del sangue
Già da un’alba morta all’inizio di un cammino per notte opaca mi segui nuda, tutta simile a me e con ali immani mi copri: «faccio perché non precipiti» mi dici con denti aguzzi di jena, e non sai che il tuo occhio è un abisso. Tu non vedi; il nostro passo è fatale. Burroni di ossa e di carne marcite stanno sulla via. Tu porti i crani a collana e sorridi serena e il tuo sorriso mi fermerà il sangue.
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O giorni miei…
Solo a sera m’è dato assistere alla deposizione della luce, quando la vita, ormai senza rimedio, è perduta.
Mio convoglio funebre di ogni notte: emigrazione di sensi, accorgimenti delle ore tradite, intanto che lo spirito è rapito sotto l’acutissimo arco dell’esistenza: l’accompagna una musica di indicibile silenzio.
Invece dovere ogni mattina risorgere sognare sempre impossibili itinerari.
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Giorno di vento
E sono senza pietà per questo mio cuore denudato;
come un giorno di vento un albero batteva alla finestra con braccia dementi il mare era tutto un pianto;
e giù alla riva appena respiravano le pietre coperte di schiuma, e c’erano rottami di barche e di rami e una scarpa gettata tra i sassi e un lembo di veste;
ed io guardavo ridendo ai vetri della cella.
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Oggi m’avvidi
Oggi m’avvidi d’essere una frattura ove il fondo fluire del tempo riceve un riflesso di sole. Sento d’aver perduto l’equilibrio e il gesto umano. Gli altri se ne vanno composti mentre il mio cammino è una sorpresa orrenda. Oh quante volte percorsi questi rioni a fianco agli amici tentando d’abbandonarmi alla strada! Invece sempre più è scoperta questa mia enormità. Essi hanno le loro parole, ma io ragiono col sangue cieco.
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Io non ho mani
Io non ho mani che mi accarezzino il volto, (duro è l’ufficio di queste parole che non conoscono amori) non so le dolcezze dei vostri abbandoni: ho dovuto essere custode della vostra solitudine: sono salvatore di ore perdute. *
(da O sensi miei… Poesie 1948-1988, Note introduttive di Andrea Zanzotto e Luciano Erba, Postfazione di Giorgio Luzzi, Milano, Rizzoli, 1990).
David Maria Turoldo, al secolo Giuseppe Turoldo, nasce a Coderno nel 1916. Presbitero, teologo, filosofo, scrittore, poeta e antifascista, membro dell’ordine dei Servi di Maria, rappresenta nel secondo Novecento una vera e propria figura profetica in ambito ecclesiale e civile, nonché uno dei più accesi sostenitori delle istanze di rinnovamento culturale e religioso di ispirazione conciliare. Il forte senso di dignità delle condizioni povere del suo Friuli lo porterà a fondare opere di accoglienza dirette a tutti i bisognosi, senza distinzioni di censo, di religione o altro. Per sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti di piaghe come la povertà, la guerra, la violenza e il razzismo, non esita a servirsi degli apporti dei media e della cinematografia, interpretando il comando evangelico “essere nel mondo senza essere del mondo” e aprendo la strada a futuri sviluppi (si pensi all’odierno utilizzo dei social in ambito cattolico). Muore a Milano nel 1992 per un tumore al pancreas. Turoldo ci ha lasciato traduzioni dei Salmi, opere esegetiche, saggi teologici, omelie, lettere, drammi teatrali e raccolte di poesie. In lui, la parola poetica è tutto: punto di ritorno e di connessione di una miriade di attività, ma soprattutto espressione di quel silenzio prezioso di cui l’uomo, spesso inconsapevolmente, ha bisogno per poter rientrare in sé e ascoltarsi; un’isola di purezza e di autenticità in mezzo alla selva di rumori e chiacchiere inutili che quotidianamente ci circonda. Il linguaggio, in tal senso, è allo stesso tempo dialogo con sé stessi e apertura al mondo, autodefinizione e contatto con Dio; è un ritorno alle sorgenti dell’esistenza, attraverso uno stile poetico essenziale, nudo e diretto, simile ad un’esperienza mistica dalla quale attingere luce e forza contro i mali del nostro vissuto.
Donatella Pezzino
(Immagine: Mosè salvato dalle acque, mosaico di Marko Ivan Rupnik, 2007, foto dal web)
“O uomo così caduco e infelice, c’è ancora qualcuno che ti vuole bene e ti aspetta, è capace di sollevarti e di perdonarti. Questo qualcuno è Gesù, è Cristo, è il Cuore del Signore.”
Paolo VI
Pietro Novelli detto il Monrealese (Monreale, 1603 – Palermo, 1647), Resurrezione di Lazzaro