La “Tela di Sant’Anna” di Pietro Novelli

“Colui che sta ancora sulla terra, ma ha la cittadinanza nel cielo e lassù ammassa tesori poiché ivi ha il suo cuore e porta l’immagine del Celeste, non per il posto che occupa egli non è più sulla terra, ma per le sue disposizioni interiori; e non appartiene al mondo di quaggiù, ma del cielo, e di un mondo celeste migliore di quello.”

Origene, La preghiera

Pietro Novelli detto il Monrealese (Monreale, 1603 – Palermo, 1647), Tela di S.Anna – Presentazione della Vergine Maria al Tempio

Olio su tela

1647

Palermo, Chiesa di San Matteo al Cassaro

Foto da Wikipedia

Il giorno come cammino di Luce. Sant’Ambrogio, tre inni

Al canto del gallo

Artefice eterno del mondo,
che notti e giorni governi,
e il tempo dei tempi disponi,
perché il tedio si spezzi,

già canta l’araldo del giorno,
sentinella di notte profonda,
luce notturna ai viandanti,
notte dalla notte separando.

Così il risvegliato Lucifero
libera da caligine il cielo,
così tutta la schera dei perduti
lascia le vie del male.

Così ritrova forze il navigante
e le onde si placano,
così nel canto lavò la colpa
la stessa pietra della Chiesa.

Coraggio, ora leviamoci!
Scuote gli inerti il gallo,
gli assonnati rimprovera,
i renitenti accusa.

Il gallo canta: speranza!
Salute di nuovo agli infermi,
riposto il pugnale del bandito,
torna la fede in chi ha tradito.

Volgiti in chi vacilla, Gesù,
e col tuo sguardo emendaci,
guardaci: i peccati cadono
si scioglie la colpa in pianto.

Tu luce rifulgi nei sensi
e scuoti il sonno della mente,
te per prima la voce ti loda,
in te le labbra schiudiamo.

*

Per l’ora sesta

Reggitore potente, vero Dio,
che regoli i destini delle cose,
che il mattino fai splendere
e fiammeggiare il meriggio,

spegni le fiamme delle contese,
togli il calore nocivo,
dona salute ai corpi
e vera luce ai cuori.

*

Per l’ora nona

Forza tenace delle cose, Dio,
immobile, in te permanente,
che fissi i tempi al succedersi
della luce diurna,

la sera chiara donaci,
perchè mai venga meno la vita,
ma premio di morte sacra
ci aspetti la gloria perenne.

(Inni tratti dalla raccolta Ambrogio. Inni, Trad. Mario Santagostini, Oscar Mondadori, 1992)

Aurelio Ambrogio (in latino Aurelius Ambrosius) nasce ad Augusta Treverorum nel 339-340 in un’illustre famiglia senatoriale convertita al cristianesimo già da diverse generazioni. Nel 374 viene nominato vescovo di Milano, incarico che manterrà fino alla morte.

Sant’Ambrogio è noto per l’influenza determinante avuta nella conversione di S.Agostino (da lui battezzato nel 387). Nella società contemporanea, però, egli acquisisce un’enorme popolarità soprattutto grazie all’eccezionale santità di vita, alla rigorosa purezza dei costumi e ad un carattere dolcissimo ma allo stesso tempo di grande fermezza.

Queste sue caratteristiche si traducono in una cura pastorale attenta e amorevole e in un’eccezionale capacità diplomatica. Ambrogio, infatti, riesce non solo ad influire su alcune scelte dell’imperatore, ma anche a difendere la sua comunità dai tentativi di ingerenza del potere politico.

Convinto assertore dei valori civili della romanità, li accoglie nel suo pensiero per dar loro un nuovo e più profondo significato alla luce della cultura cristiana. Muore a Milano nel 397.

E’ venerato come santo da tutte le chiese cristiane che prevedono il culto dei santi; insieme a San Girolamo, sant’Agostino e san Gregorio I papa, il cattolicesimo lo annovera tra i quattro grandi Dottori della Chiesa d’Occidente. Teologo, esegeta e profondo conoscitore della Scrittura, è considerato il padre della mariologia occidentale.

Nonostante i gravosi impegni su più fronti, Ambrogio ha scritto moltissimo. Ci ha lasciato scritti ascetici, morali, esegetici, dogmatici, catechetici, epistolari, omiletici e poetici. Gli Inni, composti in dimetri giambici, sono considerati veri e propri capolavori della letteratura latina cristiana e rivestono ancora oggi un ruolo primario nella liturgia.

Donatella Pezzino

Immagine da bing

David Maria Turoldo

Mito

Ora la notte risale dall’antro,
e tutto l’uomo è immerso
nel gurgite fondo. Mentre
alto e solo il pio espero apre
il suo sguardo nel cielo turchino.

A lungo io resto al balcone
contemplo le ombre montare
le pallide strade del mondo.

*

Presto l’inverno

Presto saranno gli alberi
essenziali esistenze,
e fuori tutto sembrerà di gelo
inutile. Così
l’anima è ramata
nei desideri acuti,
ignuda arte.

*

O uomo

Ricordi di alba azzurra
vanno come fradicie alghe
su acqua morta. Ti punge
— immemore delle dense ore di Dio —
il cuore: e cerchi l’anima
con fauci riarse.

Alla tua finestra
mangi la cera con denti bianchi
e ti circonda amara la carne;
dissotto l’acqua ti specchia,
enigma di materia cosciente
che hai un dorso di secoli
e non sei
che un attimo immenso.

*

Sosta del sangue

Già da un’alba morta all’inizio
di un cammino per notte opaca
mi segui nuda,
tutta simile a me
e con ali immani mi copri:
«faccio perché non precipiti»
mi dici con denti aguzzi di jena,
e non sai che il tuo occhio è un abisso.
Tu non vedi; il nostro
passo è fatale.
Burroni di ossa e di carne
marcite stanno sulla via.
Tu porti i crani a collana
e sorridi serena
e il tuo sorriso mi fermerà il sangue.

*

O giorni miei…

Solo a sera m’è dato
assistere alla deposizione
della luce, quando
la vita, ormai
senza rimedio, è perduta.

Mio convoglio funebre
di ogni notte: emigrazione
di sensi, accorgimenti
delle ore tradite, intanto
che lo spirito è rapito
sotto l’acutissimo arco
dell’esistenza: l’accompagna
una musica di indicibile
silenzio.

Invece dovere
ogni mattina risorgere
sognare sempre
impossibili itinerari.

*

Giorno di vento

E sono senza pietà per questo
mio cuore denudato;

come un giorno di vento
un albero batteva alla finestra
con braccia dementi
il mare era tutto un pianto;

e giù alla riva appena
respiravano le pietre
coperte di schiuma,
e c’erano rottami
di barche e di rami
e una scarpa gettata tra i sassi
e un lembo di veste;

ed io guardavo ridendo
ai vetri della cella.

*

Oggi m’avvidi

Oggi m’avvidi d’essere
una frattura
ove il fondo
fluire del tempo
riceve un riflesso di sole.
Sento d’aver perduto
l’equilibrio e il gesto
umano. Gli altri
se ne vanno composti
mentre il mio cammino
è una sorpresa orrenda.
Oh quante volte
percorsi questi rioni
a fianco agli amici
tentando d’abbandonarmi
alla strada! Invece
sempre più è scoperta
questa mia enormità.
Essi hanno le loro parole,
ma io ragiono col sangue
cieco.

*

Io non ho mani

Io non ho mani
che mi accarezzino il volto,
(duro è l’ufficio
di queste parole
che non conoscono amori)
non so le dolcezze
dei vostri abbandoni:
ho dovuto essere
custode
della vostra solitudine:
sono
salvatore
di ore perdute.
*

(da O sensi miei… Poesie 1948-1988, Note introduttive di Andrea Zanzotto e Luciano Erba, Postfazione di Giorgio Luzzi, Milano, Rizzoli, 1990).

David Maria Turoldo, al secolo Giuseppe Turoldo, nasce a Coderno nel 1916. Presbitero, teologo, filosofo, scrittore, poeta e antifascista, membro dell’ordine dei Servi di Maria, rappresenta nel secondo Novecento una vera e propria figura profetica in ambito ecclesiale e civile, nonché uno dei più accesi sostenitori delle istanze di rinnovamento culturale e religioso di ispirazione conciliare. Il forte senso di dignità delle condizioni povere del suo Friuli lo porterà a fondare opere di accoglienza dirette a tutti i bisognosi, senza distinzioni di censo, di religione o altro. Per sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti di piaghe come la povertà, la guerra, la violenza e il razzismo, non esita a servirsi degli apporti dei media e della cinematografia, interpretando il comando evangelico “essere nel mondo senza essere del mondo” e aprendo la strada a futuri sviluppi (si pensi all’odierno utilizzo dei social in ambito cattolico). Muore a Milano nel 1992 per un tumore al pancreas. Turoldo ci ha lasciato traduzioni dei Salmi, opere esegetiche, saggi teologici, omelie, lettere, drammi teatrali e raccolte di poesie. In lui, la parola poetica è tutto: punto di ritorno e di connessione di una miriade di attività, ma soprattutto espressione di quel silenzio prezioso di cui l’uomo, spesso inconsapevolmente, ha bisogno per poter rientrare in sé e ascoltarsi; un’isola di purezza e di autenticità in mezzo alla selva di rumori e chiacchiere inutili che quotidianamente ci circonda. Il linguaggio, in tal senso, è allo stesso tempo dialogo con sé stessi e apertura al mondo, autodefinizione e contatto con Dio; è un ritorno alle sorgenti dell’esistenza, attraverso uno stile poetico essenziale, nudo e diretto, simile ad un’esperienza mistica dalla quale attingere luce e forza contro i mali del nostro vissuto.

Donatella Pezzino

(Immagine: Mosè salvato dalle acque, mosaico di Marko Ivan Rupnik, 2007, foto dal web)

L'”Annunciata di Palermo” di Antonello da Messina

“Diu ci manna l’ambasciata

fu di l’Angilu purtata.

Di lu Figghiu di Diu Patri

già Maria fu fatta Matri.”

(preghiera popolare*)

Antonello da Messina (Messina 1425/30 – 1479), Annunciata di Palermo

Olio su tavola

1475

Palermo, Galleria Regionale Palazzo Abatellis

Foto da Wikipedia

*Fonte: Vito La Piana, Mascalucia e dintorni. Altarini, dialetto e costume, 1998

La “Resurrezione di Lazzaro” di Pietro Novelli

“O uomo così caduco e infelice, c’è ancora qualcuno che ti vuole bene e ti aspetta, è capace di sollevarti e di perdonarti. Questo qualcuno è Gesù, è Cristo, è il Cuore del Signore.”

Paolo VI

Pietro Novelli detto il Monrealese (Monreale, 1603 – Palermo, 1647), Resurrezione di Lazzaro

Olio su tela

1640

Madrid, Museo del Prado

(foto da Wikipedia)