Vorrei, come rugiada in grembo al fiore, In grembo a rosea nuvola celarmi,
Piangere, amar, pregare, in sin che fuore Me dal recesso mio, gli altri dai marmi La novissima tuba un di ridesti, E n’ apra i tabernacoli celesti.
Nella libera, immensa aria sospesa Tenterò nuovi liberi concenti, E degli uomini invece, sarò intesa Dagli spirti, dai fulmini, e dai venti.
Canterò forti note, a ria contesa Chiamerò le procelle e gli elementi; Canterò le mie pene, e gli astri e il Sole Leveransi alle flebili parole.
Fuggir sopra una nube! ad ogni umana Cosa fuggire è un nobile deliro, Un sogno etereo, un’ esistenza arcana, Un mesto, placidissimo ritiro.
Esser viva, esser sola, esser lontana, Desiata nel mondo e nell’ empiro, Mistero a tutti, nota sol nei canti.
Ebbrezza di Cherubi, amor di Santi!
Versi tratti dalla lirica “La campana del 2 novembre” di Giuseppina Turrisi Colonna (Palermo, 1822-1848) dal volume “Liriche di Giuseppina Turrisi Colonna”, Firenze, Le Monnier, 1846.
Tutte le foto sono state scattate al cimitero di Tremestieri Etneo (CT).
Lunghi tralci, lunghi tralci mi strinsero mi chiusero le braccia; specchiavo conca notturna d’acque montane, sapevo le radici e le fonti, alla bruma leggera passavano l’ombre dei giorni, sorgevano i volti fra la speranza e il dolore; ed era tepore primevo ritorno e infinita carezza. Ma quando il risveglio m’apre i mattini e mi posa su le sponde della luce reco un balsamo ignoto un olio che mi fa dolci le cose, in silenzio consuma, e mi ridona il mondo in risonanze, in memorie (e indugiano i giorni in lenti meriggi, in vesperi immensi). Così vado fra gli echi le nuvole e i raggi, non m’è straniera la spiga della lavanda che brucia l’aria o il petalo bianco ai cespugli furtivi di vento. Dietro le colline respira la stagione, scendono i declivi, ed è così molle il cammino sui viali dove le svolte spengono l’ansia dei passi che gli orizzonti fra i rami svaniscono, sorgono ancora, in abbandono di spazio. Lunghi tralci, lunghi tralci mi strinsero mi chiusero le braccia ed era ritorno, promessa; ma nella luce, nel giorno ove inclino l’ore al canto e va l’acqua fievole nella creta che brucia serbo l’ombra serbo la malia: mai tace il colloquio nascosto, mai posa la voce segreta.
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L’Anima e i prestigi
Ma l’anima confondono i prestigi: intimidita abbassa la scriminitura che parte le nere chiome, le palpebre ombrate; nel cestello ripone la matassa, gli aghi, il ditale, piega la fioritura paziente sul bianco, nelle sere. E la lontana dimora di nuovo l’accoglie: serbano le scansie tenebrose pallide ampolle, o, pendenti in vimini dal soffitto, e un poco oscillano quando passa la tramontana; spirare senti con l’erbe della solitudine, l’altura. A la tarda ora solo guarda l’alto abbaino la stella polare.
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Mobile universo di folate di raggi, d’ore senza colore, di perenni transiti, di sfarzo di nubi: un attimo ed ecco mutate splendon le forme, ondeggian millenni. E l’arco della porta bassa e il gradino liso di troppi inverni, favola sono nell’improvviso raggiare del sole di marzo.
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Ombre
Le sognanti, lontane ombre che sono dietro le tue parole questa notte, fantastiche o dolenti le portava la corrente dei giorni, il vento che apre i colori, ed ognuna il suo segreto di dolore o di gioia che il destino segnò e il buio chiude; e ancora altre ne chiami che dileguando diedero un’impronta di lume: la promessa d’un ritorno; mani che schiusero i riposi, occhi che riflettevano i meriggi sotto i rami, le foglie della vite che il raggio fa vivaci, oh le stormenti stagioni attorno ai volti, l’ore che scendevano a noi come in dolcezza umana fatte miti da uno sguardo: viva siepe, riparo che fa sicure in cerchio notti, albe, tramonti, e come pianamente rispondevano ad ogni sole che mai le avrebbe, mai sfiorate il rombo del mistero; ma in fondo ad ogni svolta è il dolore, la cenere che tocchi si riga: brace e sangue.
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Dove spore di sole frangono spume in volo s’aprono all’avventure vibran spazi marini; nube corriera allaccia i promontori e balza fuga leggera d’echi. Ma dove già si ferma l’ombra ne l’alta veglia di fusti e di fogliame, sapienza di sorgive sospesa l’aria incanta. E nell’alture (male d’erbe la pietra invade) già buio di cisterna pensa colori e forme: nei sonni scenderanno reclini su l’ignoto.
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Di soste viviamo; non turbi profondo cercare, ma scorran le vene, da quattro punti di mondo la vita in figure mi viene. Non fare che ancora mi colga l’ebbrezza, ma lascia che l’ora si sciolga in gocce di calma dolcezza; e dove era il raggio feroce, ai muri vicini che celano i passi ed i visi, solleva una voce improvvisi giardini.
E il soffio è sereno che muove al traforo dei rami i passaggi interrotti e segna ai garofani d’oro la trama delle mie notti.
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(da Canti barocchi e Gioco a nascondere, Milano, Libri Scheiwiller, 2001)
Lucio Carlo Francesco Piccolo di Calanovella nasce a Palermo nel 1901. Di nobile famiglia, cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (con cui stringe un sodalizio sia umano che intellettuale), dopo il conseguimento della maturità classica frequenta per qualche tempo i salotti letterari, interessandosi anche di spiritismo. Nel 1932 si ritira con i suoi familiari a Villa Piccolo, l’antica residenza di famiglia sita a Capo d’Orlando: qui vive un’esistenza appartata raccogliendo attorno a sé un piccolo cenacolo culturale. I suoi molteplici interessi spaziano dalla poesia alla filosofia, dall’astronomia alla matematica, dai classici greci e latini all’esoterismo. E’ inoltre musicologo e traduttore. Muore a Capo d’Orlando nel 1969.
Lontana dalle influenze neorealiste e neoavanguardiste tipiche degli anni Cinquanta e Sessanta, la poesia di Lucio Piccolo appare improntata ad uno stile barocco denso di elencazioni e di immagini surreali; la musicalità del verso è ottenuta attraverso l’uso di termini aulici e di alcuni elementi originali, come le preposizioni articolate spezzate. Largo spazio è concesso al simbolismo e all’oscurità, con percepibili rimandi al crepuscolarismo. Grande assente dalla sua scrittura è il mondo siciliano, sia per quanto riguarda la lingua che in merito ai contenuti.
Tra le sue raccolte poetiche ricordiamo 9 liriche (1954), Canti barocchi e altre liriche (1956), Gioco a nascondere. Canti barocchi e altre liriche (1960), Plumelia, All’insegna del pesce d’oro (1967).
Come fu che imparasti a trasmutare quel dolore di donna che le membra contorce in quel bianco calore che dal seno alle spalle di commuove.
Tu cancelli il tremore delle labbra con lacche rosse con risa ma nei silenzi lo si sente gridare nelle dita di quei rami protesi contro i muri notturni che tu ami nelle lame sferrate nel fogliame lame aguzze di neon che le tue mani brevi mani agitate di ragazzo tagliano ma tu neghi il dolore con merletti e mi guardi negli occhi dove l’asfalto si scompone in un cielo nero di pece.
(da a T.M.)
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Separare congiungere spargere all’aria racchiudere nel pugno trattenere fra le labbra il sapore dividere i secondi dai minuti discernere nel cadere della sera questa sera da ieri da domani
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È compiuto. È concluso. È terminato. È consumato l’incendio. S’è fermato. S’è chiuso il cerchio pietrificato. Il tempo s’è fermato. È consumato il delitto. S’è bruciato il ricordo. L’ansia è cessata. Una coltre di lava ha mormorato ogni cranio ogni orbita svuotata. Ogni bocca nel grido ha sigillato.
S’è chiuso il cerchio. Niente osa varcare il silenzio di lava. Le formiche girano intorno al rogo spento impazzite.
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Vedi non ho parole eppure resto a te accanto. Non ho voce eppure muovo le labbra. Non ho fiato eppure vivo e ti guardo. E forse è questo che volevo da te, muta restare al tuo fianco ascoltando la tua voce il tuo passo scandire le mie ore.
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Il monte il mare i fiumi del tuo ventre le albe della tua fronte questo vorrei ritrovare
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Un’altra fiaba
I corpi disseccati dei defunti s’aggirano intorno a noi. Nelle sere ci camminano a fianco per la strada si piegano su noi quando leggiamo ci guardano da lontano se parliamo con l’amica, sedute fuori dall’uscio. Hai paura del loro sguardo d’un tempo? Anch’io ho paura ma temo anche di respirare nel sonno per non disperdere all’aria la carta velina dei loro visi intenti al nostro sostare fra l’alba e il giorno di questa ora carnale.
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Messaggio
All’alba sono entrati in due dalle imposte socchiuse hanno posato sul tavolo una pietra una scatola chiusa un pezzo di pane
Oggetti d’ombra le tue occhiaie brinate dalla sera in agguato le tue mani dal lutto della notte agitate
Dalla cima del tuo grido ora dovrai discendere in quest’albore di vetri vagare
Chi segui? Chi ti chiama? Non ascoltare il grido del tramonto sfracellato nell’ombra del cortile il cerchio del tuo gesto nella sabbia devi tracciare
Nell’ombra del tuo petto accartocciato il verme scava fra i tendini le vene si nutre del tuo sangue della saliva si abbevera
Innestato allo scheletro quel pianto scordato ramifica fra i tendini, le vene raggelando il tuo gesto il tuo calore.
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Un volo e in un attimo la stanza fu colma d’un sentore acre d’estate. La tua voce si spense con la luce che moriva nel nero del fogliame. Un fiato caldo alitava ci cingeva e restammo supine ad aspettare.
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A mia madre
Quando tornerò sarà notte fonda Quando tornerò saranno mute le cose Nessuno m’aspetterà in quel letto di terra Nessuno m’accoglierà in quel silenzio di terra
Nessuno mi consolerà per tutte le parti già morte che porto in me con rassegnata impotenza Nessuno mi consolerà per quegli attimi perduti per quei suoni scordati che da tempo viaggiano al mio fianco e fanno denso il respiro, melmosa la lingua
Quando verrò solo una fessura basterà a contenermi e nessuna mano spianerà la terra sotto le guance gelide e nessuna mano si opporrà alla fretta della vanga al suo ritmo indifferente per quella fine estranea, ripugnante
Potessi in quella notte vuota posare la mia fronte sul tuo seno grande di sempre Potessi rivestirmi del tuo braccio e tenendo nelle mani il tuo polso affilato da pensieri acuminati da terrori taglienti potessi in quella notte risentire il mio corpo lungo il tuo possente materno spossato da parti tremendi schiantato da lunghi congiungimenti
Ma troppo tarda la mia notte e tu non puoi aspettare oltre E nessuno spianerà la terra sotto il mio fianco nessuno si opporrà alla fretta che prende gli uomini davanti a una bara
( poesie tratte da Ancestrale, prefazione e cura di Angelo Pellegrino, La Vita Felice, 2013)
Goliarda Sapienza nasce a Catania nel 1924. Il padre è l’avvocato socialista Giuseppe Sapienza, la madre la sindacalista Maria Giudice, prima dirigente donna della Camera del Lavoro di Torino: il clima familiare nel quale Goliarda si forma, quindi, la educa alla massima libertà mentale e morale, soprattutto nei confronti dell’allora dominante cultura fascista.
Trasferitasi a Roma con la famiglia, Goliarda studia all’Accademia di Arte Drammatica e, per un certo periodo, recita sia in teatro che al cinema. Lascia la carriera di attrice per dedicarsi alla scrittura. Alcune esperienze di vita particolarmente difficili, come una condanna per furto e la detenzione nel carcere di Rebibbia, ne segnano profondamente la produzione letteraria.
Negli ultimi anni della sua vita è docente di recitazione presso il Centro Sperimentale di Cinematografia. Nel 1994 recita nel ruolo di sé stessa nel docufilm “Frammenti di Sapienza” di Paolo Franchi presentato alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Muore a Gaeta nel 1996.
La Goliarda scrittrice ci ha lasciato taccuini, scritti teatrali, epistolari, poesie e scritti di narrativa. Fra questi ultimi, oltre al romanzo di successo L’arte della gioia (terminato nel 1976 e pubblicato postumo), si segnalano interessanti opere di carattere autobiografico, come Il filo di mezzogiorno (1969), L’università di Rebibbia (1983) e Le certezze del dubbio (1987).
In esse, come nei suoi versi, una scrittura semplice, nervosa e irruenta segue il libero flusso di coscienza per scandagliare anima e vita fin nelle pieghe più riposte. Molto particolare il suo stile, nel quale si intrecciano lirismo e realismo, ironia e amarezza, profondità e distacco: un’armonia di contrasti tipicamente siciliana che da lei, però, riceve un’impronta personale e assolutamente unica.
Donatella Pezzino
(Immagine: Piera Nastasi, La spagnola, olio su tela, 1939)
Articolo pubblicato sul “Caffè letterario” di Bibbia d’Asfalto alla pagina:
“… chi risulta spergiuro per la colpa commessa, dovrà migrare lontano dai beati, che come demoni longevi hanno raggiunto la vita, per tre volte diecimila stagioni, rinascendo attraverso il tempo in molteplici forme di corpi mortali, permutando i procellosi cammini della propria esistenza.
Così ora sono esule anch’io per il decreto divino, ed errante affidato all’astio furibondo,…
Perchè la forza dei venti li insegue fino al mare, e il mare li ributta sul dorso della terra, e la terra contro i raggi del sole possente, e questo li scaglia nel turbine dei venti: ognuno dall’altro li riceve e tutti li aborrono.”
(Empedocle, Poema Fisico e Lustrale, ed. a cura di Lorenzo Gallavotti, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, 1991, p.77, v.103.)
Empedocle, nato e vissuto ad Akragas (l’odierna Agrigento) nel V secolo a.C. è stato uno dei più eminenti filosofi presocratici sicelioti.
Il suo pensiero è noto soprattutto per la teoria cosmogonica dei quattro elementi classici (ριζώματα, rizòmata, ovvero “radici”), accanto ai quali egli pone Amore (Φιλότης), principio in grado di mescolarli, e Odio (Νεῖκος), principio della loro separazione.
Influenzato dai pitagorici, Empedocle elaborò un dottrina della reincarnazione e si oppose all’uccisione degli animali, sia a scopo sacrificale che nutritivo. Sembra sia stato l’ultimo filosofo greco ad aver messo per iscritto in versi le sue idee.
La sua morte è avvenuta in circostanze misteriose: secondo alcuni autori antichi, si sarebbe gettato volontariamente nell’Etna.
Donatella Pezzino
(fonte: wikipedia)
Nell’immagine: il mare di Acitrezza (CT), foto D. Pezzino
Desidero solo silenzio e quiete, non parlarmi di cose del passato e del futuro non parlarmi di ieri e non andare all’indomani. Questo attimo, per me, non ha né prima né dopo non ha più senso ieri è scomparso quali echi e ombre e l’ignoto domani si dilaga lontano e non si vede più sarà forse diverso di quanto han disegnato le mani dai sogni tuoi e miei, diverso di quanto desideriamo? Questo attimo, e non altri tempi, è un fiore che si apre nelle nostre mani: senza frutti senza radici ma è solo un fiore di spontanea bellezza, teniamolo bene prima che si strappi, amore mio! * Mi basta
Mi basta morire sulla mia terra essere sepolta in essa sciogliermi e svanire nel suo suolo e poi germogliare come un fiore colto con tenerezza da un bimbo del mio paese. Mi basta rimanere nell’abbraccio del mio paese per stargli vicino, stretta, come una manciata di polvere ramoscello di prato un fiore
*
Fadwa Tuqan, poetessa e saggista palestinese, nasce a Nablus il 1º marzo 1917. Viaggia molto in Europa e in Medio Oriente; negli anni Sessanta studia lingua e letteratura inglese presso la Oxford University. Nel 1967 la sua città natale viene occupata dagli israeliani: questo evento influenza la sua scrittura in modo definitivo. Nella sua poesia, i temi sono la lotta del suo popolo, l’Intifada, la sofferenza e le atrocità della guerra; ma anche la condizione della donna nel mondo arabo. E’ stata premiata con il Palestinians’ Jerusalem Award for Culture and Art e con altri riconoscimenti in Grecia, Italia e Giordania. E’ morta il 12 dicembre 2003. (fonte: Wikipedia)