Due poesie di ‘Omar Khayyām

Giardino ombroso. L'immagine illustra i concetti chiave delle poesie.

O cuore, fa’ conto di avere tutte le cose del mondo,
Fa’ conto che tutto ti sia giardino delizioso di verde,
E tu su quell’erba fa’ conto d’esser rugiada
Gocciata colà nella notte, e al sorger dell’alba svanita.

*

Prima di me e te, già esistevano la notte e il giorno
E le volte celesti già seguivano il loro percorso.
Finchè è giorno, muovi gentile il tuo passo sulla polvere
Perchè è stata pupilla di una bella fanciulla.

(traduzione Hafez Haidar)

(da Quartine, ebook, Milano, BUR, 2013, quartine 15-26).

‘Omar Khayyām nasce a Nīshāpūr nel 1048. Poeta, matematico, filosofo e astronomo, scrive ancora giovanissimo vari trattati di algebra, geometria, aritmetica e musica, tra cui il famoso Trattato sulla dimostrazione dei problemi di algebra, la sua opera scientifica più importante.

Non sembra sia stato letterato di professione: probabilmente scriveva per diletto e per un pubblico scelto. Muore a Nīshāpūr nel 1131.

Come poeta è noto per le bellissime Quartine (arabo رباعیات, Rubʿayyāt), ormai annoverate tra i classici della poesia di tutti i tempi, dove emerge lo spirito critico dello scienziato “insoddisfatto” del piano della creazione e dei limiti della ragione di fronte al mistero dell’esistenza umana.

Donatella Pezzino

Poesie d’amore di Giacomo da Lentini

Amor è un[o] desio che ven da core
per abondanza di gran piacimento;
e li occhi in prima genera[n] l’amore
e lo core li dà nutricamento.
Ben è alcuna fiata om amatore
senza vedere so ‘namoramento,
ma quell’amor che stringe con furore
da la vista de li occhi à nas[ci]mento.
Che li occhi rapresenta[n] a lo core
d’onni cosa che veden bono e rio,
com’è formata natural[e]mente;
e lo cor, che di zo è concepitore,
imagina, e piace quel desio:
e questo amore regna fra la gente.
(XIXc)

*

Molti amadori la lor malatia
portano in core, che ‘n vista non pare;
ed io non posso sì celar la mia,
ch’ella non paia per lo mio penare:
però che son sotto altrui segnoria,
né di meve nonn-ò neiente a·ffare,
se non quanto madonna mia voria,
ch’ella mi pote morte e vita dare.
Su’ è lo core e suo son tutto quanto,
e chi non à consiglio da suo core,
non vive infra la gente como deve;
cad io non sono mio né più né tanto,
se non quanto madonna è de mi fore
ed uno poco di spirito è ‘n meve.
(XXIII)

*

A l’aire claro ò vista ploggia dare,
ed a lo scuro rendere clarore;
e foco arzente ghiaccia diventare,
e freda neve rendere calore;
e dolze cose molto amareare,
e de l’amare rendere dolzore;
e dui guerreri in fina pace stare,
e ‘ntra dui amici nascereci errore.
Ed ò vista d’Amor cosa più forte,
ch’era feruto e sanòmi ferendo;
lo foco donde ardea stutò con foco.
La vita che mi dè fue la mia morte;
lo foco che mi stinse, ora ne ‘ncendo,
d’amor mi trasse e misemi in su’ loco.
(XXVI)

*

Io m’aggio posto in core a Dio servire,
com’io potesse gire in paradiso,
al santo loco, c’aggio audito dire,
o’ si mantien sollazzo, gioco e riso.
Sanza mia donna non vi voria gire,
quella c’à blonda testa e claro viso,
che sanza lei non poteria gaudere,
estando da la mia donna diviso.
Ma no lo dico a tale intendimento,
perch’io pecato ci volesse fare;
se non veder lo suo bel portamento
e lo bel viso e ‘l morbido sguardare:
che·l mi teria in gran consolamento,
veggendo la mia donna in ghiora stare.
(XXVII)

*

Diamante, né smiraldo, né zafino,
né vernul’altra gema preziosa,
topazo, né giaquinto, né rubino,
né l’aritropia, ch’è sì vertudiosa,
né l’amatisto, né ‘l carbonchio fino,
lo qual è molto risprendente cosa,
non àno tante belezze in domino
quant’à in sé la mia donna amorosa.
E di vertute tutte l’autre avanza,
e somigliante [a stella è] di sprendore,
co la sua conta e gaia inamoranza,
e più bell’e[ste] che rosa e che frore.
Cristo le doni vita ed alegranza,
e sì l’acresca in gran pregio ed onore.
(XXXV)

*

Madonna à ‘n sé vertute con valore
più che nul’altra gemma preziosa:
che isguardando mi tolse lo core,
cotant’è di natura vertudiosa.
Più luce sua beltate e dà sprendore
che non fa ‘l sole né null’autra cosa;
de tut[t]e l’autre ell’è sovran’e frore,
che nulla apareggiare a lei non osa.
Di nulla cosa non à mancamento
né fu ned è né non serà sua pare,
né ‘n cui si trovi tanto complimento;
e credo ben, se Dio l’avesse a fare,
non vi metrebbe sì su’ ‘ntendimento
che la potesse simile formare.
(XXXVI)

(Da Poesie di Giacomo da Lentini, ebook, Simplicissimus Book Farm, 2011).

Giacomo (o Jacopo) da Lentini (Lentini, 1210 circa – 1260 circa), notaio presso la corte di Federico II di Svevia (donde l’appellativo “il Notaro”, con cui Dante lo indica), è considerato l’ideatore del sonetto.
E’ stato il massimo esponente della Scuola Poetica siciliana, nella quale si è distinto per talento e inventiva. Le liriche di Giacomo cantano prevalentemente temi amorosi, in cui il rapporto tra uomo e donna è quello tipico della tradizione cortese.

Gli si attribuiscono 16 canzoni (di vario schema metrico) e 22 sonetti. Di lui, il Canzoniere Vaticano latino 3793 tramanda più di una trentina di componimenti.

Donatella Pezzino

Immagine da Bing

Fonti su Giacomo da Lentini e sulla Scuola siciliana:
– Wikipedia
– Poeti alla corte di Federico II, a cura di Carlo Ruta, Palermo, Edi.bi.si., 2001.

– I Poeti della Scuola siciliana. Volume I: Giacomo da Lentini, Mondadori, Milano, 2008.

Francesco Petrarca, cinque poesie d’amore

Bosco con ruscello e cascata. Immagine simbolo poesia Petrarca

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,

del vario stile in ch’io piango et ragiono
fra le vane speranze e ‘l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.

Ma ben veggio or sí come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;

et del mio vaneggiar vergogna è ‘l frutto,
e ‘l pentersi, e ‘l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.

*

Lassare il velo o per sole o per ombra,
donna, non vi vid’io
poi che in me conosceste il gran desio
ch’ogni altra voglia d’entr’al cor mi sgombra.

Mentr’io portava i be’ pensier’ celati,
ch’ànno la mente desïando morta,
vidivi di pietate ornare il volto;
ma poi ch’Amor di me vi fece accorta,
fuor i biondi capelli allor velati,
et l’amoroso sguardo in sé raccolto.
Quel ch’i’ piú desiava in voi m’è tolto:
sí mi governa il velo
che per mia morte, et al caldo et al gielo,
de’ be’ vostr’occhi il dolce lume adombra.

*

Solo et pensoso i piú deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.

Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:

sí ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.

Ma pur sí aspre vie né sí selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co llui.

*

Benedetto sia ‘l giorno, et ‘l mese, et l’anno,
et la stagione, e ‘l tempo, et l’ora, e ‘l punto,
e ‘l bel paese, e ‘l loco ov’io fui giunto
da’duo begli occhi che legato m’ànno;

et benedetto il primo dolce affanno
ch’i’ ebbi ad esser con Amor congiunto,
et l’arco, et le saette ond’i’ fui punto,
et le piaghe che ‘nfin al cor mi vanno.

Benedette le voci tante ch’io
chiamando il nome de mia donna ò sparte,
e i sospiri, et le lagrime, e ‘l desio;

et benedette sian tutte le carte
ov’io fama l’acquisto, e ‘l pensier mio,
ch’è sol di lei, sí ch’altra non v’à parte.

*

Io amai sempre, et amo forte anchora,
et son per amar piú di giorno in giorno
quel dolce loco, ove piangendo torno
spesse fïate, quando Amor m’accora.

Et son fermo d’amare il tempo et l’ora
ch’ogni vil cura mi levâr d’intorno;
et più colei, lo cui bel viso adorno
di ben far co’ suoi exempli m’innamora.

Ma chi pensò veder mai tutti insieme
per assalirmi il core, or quindi or quinci,
questi dolci nemici, ch’i’ tant’amo?

Amor, con quanto sforzo oggi mi vinci!
Et se non ch’al desio cresce la speme,
i’ cadrei morto, ove più viver bramo.

(dal Canzoniere, Torino, Einaudi, 1964 – ristampa 1989)

Francesco Petrarca nasce ad Arezzo nel 1304. Agli impegni di carattere civile e diplomatico (è al servizio di alcune tra le più influenti famiglie del tempo, come i Colonna e i Visconti), affianca le attività di scrittore, poeta, filosofo e filologo. Muore ad Arquà nel 1374.

Ci ha lasciato scritti di vario genere che rispecchiano la multiformità dei suoi interessi: opere latine in versi (come il Bucolicum Carmen, in egloghe di argomento amoroso, politico e morale), epistole, preghiere, opere latine in prosa (come il De Viris Illustribus, il De Vita Solitaria e il Secretum) e opere poetiche in volgare, come il poema allegorico I Trionfi e, soprattutto, il Canzoniere (Rerum Vulgarum Fragmenta).

Composto fra il 1336 e il 1374, il Canzoniere comprende 366 componimenti. L’opera, annoverata tra le colonne della letteratura italiana di ogni tempo, viene lodata quale modello di stile già dal Bembo agli inizi del Cinquecento.

Fin dal suo apparire, il Canzoniere raggiunge una tale risonanza da ispirare la nascita di un vero e proprio movimento letterario: si tratta del cosiddetto Petrarchismo, basato sull’imitazione degli stilemi, del lessico e dei generi poetici propri della lirica in volgare di Petrarca e destinato a grande fortuna per tutte le epoche successive.

In Petrarca, il teocentrismo tipico della filosofia Scolastica viene superato da una visione antropocentrica della realtà che, attraverso una rivalutazione della patristica (Sant’Agostino in particolare) e dei classici latini, anticipa già le posizioni dell’Umanesimo. La concezione petrarchesca dell’uomo virtuoso è essenzialmente quella che lui stesso cerca di testimoniare con la sua vita: cittadino del mondo, modello di perfezione morale, campione della lotta contro i vizi.

In questa ottica deve leggersi la dimensione lirica del Canzoniere, dove i versi, più che cantare stilnovisticamente Laura, si propongono come tappe di un percorso di riscatto dall’amore per la donna, e come anelito alla libertà e alla purezza spirituale.

Donatella Pezzino

Immagine da bing

“Orto un tempo nido dell’incontro” di Ibn Hamdis

Orto un tempo nido dell’incontro
orto chiuso dal fuoco dell’assenza
chi mi renderà il tuo odor di basilico
immortale dono del paradiso?
Quanta saliva dal sapor di miele
stillava dalla fresca grandine!
Servo d’amore
che tanta piaga affligge
e sempre in piedi mi costringe
a voi chiedo pietà, sì lontana
pur se amor lancia il dardo
è la mira dal tiro…
Chi mi salverà dall’accidia del deserto?
Chi verso il disco del sole mi aiuterà a volare?

*

Ibn Hamdis (Noto, 1056 – Maiorca, 1133)

Fonte: Poeti arabi di Sicilia a cura di F.M. Corrao, Mesogea, 2004.

Immagine: un quadro di Michele Catti (Palermo, 1855 – Palermo, 1914) dal sito http://www.alessandrobiffanti.com

Due poesie di al-Ballanūbī

O mio amante amato, l’anima mia rifiuta

questo tuo continuo andare e venire.

 

E se hai cominciato a non contare il mio desiderio

rispetta però l’amore che ci fu tra noi.

 

Per te non dormo e ho le palpebre gonfie

ma altre palpebre godano del sonno.

 

(traduzione di Jolanda Insana)

*

Quando vidi l’amore contagiato

dalla passione, allora ti nascosi

quanto dolore viene dall’amore.

 

Ti avevo custodito dentro la mia pupilla,

ma quando l’occhio pianse volli metterti

vicino a Dio, nel cuore del mio cuore.

 

Se solo mi dicessi di non bere,

io non andrei alla fonte, non desidererei

l’acqua dolce, freschissima.

 

Ma tu perchè mi sfuggi, mi resisti,

ti unisci a me, con tutto il desiderio

soltanto nelle righe delle lettere?

(traduzione di Valerio Magrelli)

*

Abū l-Ḥasan ʿAlī ibn ʿAbd al-Raḥmān al-Kātib al-Ṣiqillī, meglio conosciuto con la “nisba” (secondo l’onomastica araba, l’appellativo che indica il luogo di appartenenza) di al-Ballanūbī (o al-Billanūbī, che significa “quello di “Villanuova”), fu un poeta arabo siculo, vissuto tra il XI e il XII secolo. Nato a Villanuova, nei pressi di Bivona (AG), al-Ballanūbī abbandonò la Sicilia in seguito all’invasione normanna. Si trasferì in al-Andalus, in territorio iberico, dove, come Ibn Hamdis, altro poeta esule dalla Sicilia, si pose sotto l’ala protettrice del regnante abbadide Muhammad al-Muʿtamid, poeta,  mecenate e promotore di un prestigioso cenacolo di intellettuali. Successivamente, al-Ballanūbī si trasferì al Cairo, in Egitto, dove morì in età molto avanzata.         

Donatella Pezzino

Immagine: la “Moschea Blu” di Palermo da http://www.famedisud.it. (Vedi anche http://www.italianways.com/la-stanza-blu-di-palermo-esoterica-bellezza/)

Fonti:

– Wikipedia

– Francesca Maria Corrao (a cura di), Poeti arabi di Sicilia, Mesogea, 2004.

 

 

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