Poesie d’amore di Giacomo da Lentini

Amor è un[o] desio che ven da core
per abondanza di gran piacimento;
e li occhi in prima genera[n] l’amore
e lo core li dà nutricamento.
Ben è alcuna fiata om amatore
senza vedere so ‘namoramento,
ma quell’amor che stringe con furore
da la vista de li occhi à nas[ci]mento.
Che li occhi rapresenta[n] a lo core
d’onni cosa che veden bono e rio,
com’è formata natural[e]mente;
e lo cor, che di zo è concepitore,
imagina, e piace quel desio:
e questo amore regna fra la gente.
(XIXc)

*

Molti amadori la lor malatia
portano in core, che ‘n vista non pare;
ed io non posso sì celar la mia,
ch’ella non paia per lo mio penare:
però che son sotto altrui segnoria,
né di meve nonn-ò neiente a·ffare,
se non quanto madonna mia voria,
ch’ella mi pote morte e vita dare.
Su’ è lo core e suo son tutto quanto,
e chi non à consiglio da suo core,
non vive infra la gente como deve;
cad io non sono mio né più né tanto,
se non quanto madonna è de mi fore
ed uno poco di spirito è ‘n meve.
(XXIII)

*

A l’aire claro ò vista ploggia dare,
ed a lo scuro rendere clarore;
e foco arzente ghiaccia diventare,
e freda neve rendere calore;
e dolze cose molto amareare,
e de l’amare rendere dolzore;
e dui guerreri in fina pace stare,
e ‘ntra dui amici nascereci errore.
Ed ò vista d’Amor cosa più forte,
ch’era feruto e sanòmi ferendo;
lo foco donde ardea stutò con foco.
La vita che mi dè fue la mia morte;
lo foco che mi stinse, ora ne ‘ncendo,
d’amor mi trasse e misemi in su’ loco.
(XXVI)

*

Io m’aggio posto in core a Dio servire,
com’io potesse gire in paradiso,
al santo loco, c’aggio audito dire,
o’ si mantien sollazzo, gioco e riso.
Sanza mia donna non vi voria gire,
quella c’à blonda testa e claro viso,
che sanza lei non poteria gaudere,
estando da la mia donna diviso.
Ma no lo dico a tale intendimento,
perch’io pecato ci volesse fare;
se non veder lo suo bel portamento
e lo bel viso e ‘l morbido sguardare:
che·l mi teria in gran consolamento,
veggendo la mia donna in ghiora stare.
(XXVII)

*

Diamante, né smiraldo, né zafino,
né vernul’altra gema preziosa,
topazo, né giaquinto, né rubino,
né l’aritropia, ch’è sì vertudiosa,
né l’amatisto, né ‘l carbonchio fino,
lo qual è molto risprendente cosa,
non àno tante belezze in domino
quant’à in sé la mia donna amorosa.
E di vertute tutte l’autre avanza,
e somigliante [a stella è] di sprendore,
co la sua conta e gaia inamoranza,
e più bell’e[ste] che rosa e che frore.
Cristo le doni vita ed alegranza,
e sì l’acresca in gran pregio ed onore.
(XXXV)

*

Madonna à ‘n sé vertute con valore
più che nul’altra gemma preziosa:
che isguardando mi tolse lo core,
cotant’è di natura vertudiosa.
Più luce sua beltate e dà sprendore
che non fa ‘l sole né null’autra cosa;
de tut[t]e l’autre ell’è sovran’e frore,
che nulla apareggiare a lei non osa.
Di nulla cosa non à mancamento
né fu ned è né non serà sua pare,
né ‘n cui si trovi tanto complimento;
e credo ben, se Dio l’avesse a fare,
non vi metrebbe sì su’ ‘ntendimento
che la potesse simile formare.
(XXXVI)

(Da Poesie di Giacomo da Lentini, ebook, Simplicissimus Book Farm, 2011).

Giacomo (o Jacopo) da Lentini (Lentini, 1210 circa – 1260 circa), notaio presso la corte di Federico II di Svevia (donde l’appellativo “il Notaro”, con cui Dante lo indica), è considerato l’ideatore del sonetto.
E’ stato il massimo esponente della Scuola Poetica siciliana, nella quale si è distinto per talento e inventiva. Le liriche di Giacomo cantano prevalentemente temi amorosi, in cui il rapporto tra uomo e donna è quello tipico della tradizione cortese.

Gli si attribuiscono 16 canzoni (di vario schema metrico) e 22 sonetti. Di lui, il Canzoniere Vaticano latino 3793 tramanda più di una trentina di componimenti.

Donatella Pezzino

Immagine da Bing

Fonti su Giacomo da Lentini e sulla Scuola siciliana:
– Wikipedia
– Poeti alla corte di Federico II, a cura di Carlo Ruta, Palermo, Edi.bi.si., 2001.

– I Poeti della Scuola siciliana. Volume I: Giacomo da Lentini, Mondadori, Milano, 2008.