Vittoria Aganoor

E’ nel mio sogno

È nel mio sogno un prato tutto verde
solitario, tra due
spalle di monte, e l’erba trema al soffio
dell’ombra.
Di là, nel sole, cantano,
ma il canto va lontano e poi si perde.
Più solitario resta
e più silenzïoso,
nel mio sogno, quel prato tutto verde.

*

Visione

So d’un palazzo dalle mura antiche
triste così ch’ha di sepolcro aspetto;
bruno di muschi dagli sproni al tetto,
ingombro l’atrio d’edere e d’ortiche.

Dentro, un’ava grinzosa, in sè raccolta
dinanzi al focolar deserto e spento,
segue a narrar con infantile accento
una leggenda che nessuno ascolta.

*

Dicembre

Qua e là per la campagna irti si drizzano
al cielo i rami delle piante esauste.
Piove; incombe sull’ampia solitudine
desolata, il silenzio.

Sulla deserta immensità dell’anima
talor mute così piovon le lagrime;
umane braccia così al ciel protendonsi
talora, emunte e supplici.

*

Tentazione

Sul fragor del torrente
protesi il capo dalla rupe scura,
ròsa da mille rivi,
e pensai: — Che ideale sepoltura
in quegli abissi, eternamente vivi
di vive onde di voci e di tempeste!
Così, così cantare
con voce più possente
dei turbini traverso alle foreste,
con l’impeto del mare!
Ma poi che invano cerca questa mia
anima, per irrompere in superbo
clamor, che scota i baratri e le cime,
la sua dirotta via
tra le scogliere altissime del verbo;
poi che il varco sublime
non s’apre, e in onde chiare
e forti, non prorompono le rime
ruggendo della gloria incontro al mare;
della sonante roccia
per le muscose spire
meglio come una goccia
cader nel fondo, perdersi, sparire!…

*
da La vecchia anima sogna…

Viene il vento recandomi un sottile
odor di selva; annotta, e sui tranquilli
campi l’ombre si stendono. Una nota
limpida sale, si ripete, erompe
in improvvisi trilli,
in una frenesia di gioia, ignota
a noi, fatti di fango e di menzogna.
La notte ascolta e beve da quel canto
l’estasi. La mia vecchia anima sogna.

*

Vespero

Laggiù nei prati l’ombre s’allungano
dei pioppi; assorta nel cheto vespero
la verde pianura si stende
incontro all’alto mar d’ametisto.
Morì la lunga nota dell’ultima
stornellatrice; tacque l’allodola
nell’alto; non s’ode che un largo
bisbiglio, all’erbe sotto e tra i rami,
Come talora vibran nel tempio,
dopo i cantati salmi, de’ monaci
l’estreme preghiere sommesse
rimormorate lasciando il coro.
Salgon dall’erbe recisi effluvi
di moribondi fiori. A me salgono
dal core i ricordi, fragranze
vostre, o morenti fior del passato!
*

Da Diario

Piove. Certo laggiù, povero morto,
è freddo e buio, ma più freddo e buio
è qui, qui sulla terra, ove le foglie
son tutte gialle, e van col vento, e cadono,
cadono, e il cielo copre una gramaglia
fredda. È quassù l’algore, in questo immenso
deserto, dove sola una smarrita
anima va, senza più meta, incontro
a un’infinita tenebra, sbattuta
dalla tempesta che non posa, in questo
inverno di dolore.

(da Leggenda eterna; Intermezzo; Risveglio. Liriche di Vittoria Aganoor Pompilj, Torino-Roma, Casa Editrice Nazionale Roux e Viarengo, 1903).

Vittoria Aganoor nasce a Padova il 26 maggio 1855 da una nobile famiglia di origine armena. Assidua frequentatrice dei salotti e dei circoli culturali, vive per molti anni a Venezia e a Napoli, dove conosce alcuni dei più importanti letterati del suo tempo, come Antonio Fogazzaro, Andrea Maffei, Domenico Gnoli e Giacomo Zanella (suo maestro per 15 anni).

Molto schiva nei riguardi delle sue opere, forse per timore che non vengano comprese, si decide a pubblicare la sua silloge poetica maggiore (Leggenda Eterna) solo nel 1900, su pressione dei suoi amici.

Restia ad accettare l’etichetta di scrittrice spontanea e sentimentale, si sforza di elaborare una scrittura “di testa”, estremamente studiata e curata nell’aspetto formale, ispirandosi soprattutto a Gabriele D’Annunzio e a Giacomo Leopardi.

Tuttavia, non può impedire ai versi di svelare la sua natura inquieta e malinconica, incline alla depressione e del tutto insofferente a costrizioni e convenzioni. Un aspetto del suo carattere del tutto insospettabile, dato che in società riesce ad apparire sempre garbata e brillante.

Lungi dall’essere opere fredde e artificiose, le sue liriche si fanno quindi portavoce del suo mondo interiore: le prime pubblicazioni, in particolare, esprimono un tormento dai toni quasi teatrali, un senso di impotenza, un bisogno di libertà che sfocia in un angoscioso desiderio di morte. Nella maturità, invece, la sua opera vira verso una poesia più chiara ed equilibrata che fonde armonicamente ultimo Romanticismo, Decadentismo e Crepuscolarismo.

La poetessa muore a Roma l’8 maggio 1910 in seguito ad un intervento chirurgico, probabilmente per cancro. Ci ha lasciato varie raccolte poetiche, lettere e carteggi. Molto apprezzata dai suoi contemporanei (Benedetto Croce, in particolare, ebbe per i suoi versi parole di elogio), la sua poesia – in parte ancora inedita – è stata recentemente rivalutata attraverso convegni, articoli e premi letterari.

Donatella Pezzino

Immagine: Ragazza che legge nel salotto, dipinto di Giovanni Boldini (1876)

Pubblicato sulla rubrica “Caffè letterario” del blog di Bibbia d’Asfalto alla pagina: https://poesiaurbana.altervista.org/vittoria-aganoor-caffe-letterario/

Dieci poesie di Vittoria Aganoor

Sotto le stelle

Dormono i campi, non s’ode una voce.
Solo un passo, che male
discerno ove sia vòlto,
un passo lieve, ritmico, veloce,
io nel silenzio della notte ascolto.

Va, va, va, quel notturno pellegrino,
e benchè mai non resti,
e benchè sempre a un modo
segua rapido e uguale il suo cammino,
io nella notte lontanar non l’odo.

Va, va, va, come mi passasse accosto
sempre, sempre, e fuggisse
sempre un persecutore;
va, va, il fantasma nell’ombre nascosto
che cammina col ritmo del mio cuore.

Io sento io sento che una qualche stilla
di vita, egli, passando,
mi beve; ai miei pensieri
ruba un sogno, al mio sguardo una scintilla,
lorda di polve i miei capelli neri.

Io sento ch’egli porta a dei lontani
cuori l’oblìo dei voti
che travolse il destino,
l’oblìo dei cari dì senza domani,
l’oblìo di me che a ricordar m’ostino.

*
Il treno

Va nella notte l’anelante spettro
tra le fragranze dei vigneti in fiore,
va nella notte e da conquistatore
schiavo il mio corpo si trascina dietro.

Solo il mio corpo, l’inerte persona;
ma dal possente che scintille esala
ratto si sciolse con un colpo d’ala
quel che laccio terren non imprigiona,

Ed a ritroso migra ad un alato
fratel che incontro cupido gli viene;
libere vie liberamente tiene
sui vinti gioghi e il mar signoreggiato.

Sì, lo spettro che torbido viaggia
lunge si porti il fremito degli ebbri
sensi, il tumulto, le maligne febbri,
gl’impeti della mia fibra selvaggia;

E a te venga, e di raggi e fior si valga
a parlarti d’amor senza parola
tutta l’anima mia, l’anima sola,
e la tua cerchi, e le si stringa, e salga!

*

Visione

So d’un palazzo dalle mura antiche
triste così ch’ha di sepolcro aspetto;
bruno di muschi dagli sproni al tetto,
ingombro l’atrio d’edere e d’ortiche.

Dentro, un’ava grinzosa, in sè raccolta
dinanzi al focolar deserto e spento,
segue a narrar con infantile accento
una leggenda che nessuno ascolta.

*

Pioggia

Piovea; per le finestre spalancate
a quella tregua d’ostinati ardori
saliano dal giardin fresche folate
d’erbe risorte e di risorti fiori.

S’acchetava il tumulto dei colori
sotto il vel delle gocciole implorate;
e intorno ai pioppi, ai frassini, agli allori
beveano ingorde le zolle assetate.

— Esser pianta, esser foglia, essere stelo
e nell’angoscia dell’ardor (pensavo)
così largo ristoro aver dal cielo! —

Sul davanzal protesa io gli arboscelli,
i fiori, l’erbe, guardavo, guardavo…
E mi battea la pioggia sui capelli.

*

O morti!..

I passanti s’indugiano ai cancelli
spiando delle verdi ombre i segreti;
ma son l’ombre deserte, e i muschi e l’erbe
parassite che allignan sugli avelli
veston la villa immersa tra gli abeti.

Io, qui seduta sotto il porticato
dove sovente al vespero veniva
il padre mio, guardo, e mi credo un’ombra,
l’ombra d’un lontanissimo passato
che solo ha forma di persona viva.

S’affaccia della Luna il bianco viso
tra pianta e pianta, ma la vaga scorta
dei sogni, più non è con lei; somiglia
un teschio adesso e con beffardo riso
sembra dirmi: — «Non vedi? anch’io son morta!» —

Ecco l’Ave, la squilla ch’egli udìa,
lo stesso suono… e tornano dell’ore
lontane le memorie: i giorni lieti,
le dolci sere; un’intima agonia
evocatrice che dilania il core.

O morti, dite una parola, dite
una parola!… Con l’orecchio io tendo
tutta l’anima mia… Passa una nube
e l’erba trema… Oh certo voi m’udite,
mi parlate… e son io che non v’intendo.

*

Canto d’Aprile

Canta una voce: — O genti dolorose
io vengo, io vengo! Aprite alle speranze
il core, aprite le rinchiuse stanze
alla giungente carica di rose.

Io vengo, io vengo! Ogni deserto ed ogni
rupe fiorisce; levate la testa
e sorridete; io vengo per la festa
meravigliosa, carica di sogni.

D’un più costante e luminoso Maggio
la promessa vi reco. O contristati
cuori, o negletti, o vinti, o disamati,
o vacillante umanità, coraggio! —

*

Tentazione

Sul fragor del torrente
protesi il capo dalla rupe scura,
ròsa da mille rivi,
e pensai: — Che ideale sepoltura
in quegli abissi, eternamente vivi
di vive onde di voci e di tempeste!
Così, così cantare
con voce più possente
dei turbini traverso alle foreste,
con l’impeto del mare!
Ma poi che invano cerca questa mia
anima, per irrompere in superbo
clamor, che scota i baratri e le cime,
la sua dirotta via
tra le scogliere altissime del verbo;
poi che il varco sublime
non s’apre, e in onde chiare
e forti, non prorompono le rime
ruggendo della gloria incontro al mare;
della sonante roccia
per le muscose spire
meglio come una goccia
cader nel fondo, perdersi, sparire!…

*

Per via

Mi andava innanzi, curva, con un bimbo
in collo, e il bimbo dietro a lei guardava,
proteso il volto paffutello e il nimbo
ricciuto, d’in su l’omero dell’ava.

O fresco volto, o vecchio omero! Tale
d’una muraglia antica e rovinosa
ai merli, su dal chiuso parco sale
e s’affaccia, ridente occhio, una rosa.

*

In automobile

Via! via! Salga con noi la vertigine
del trionfo! voliamo all’ignoto
malïoso dominio dei turbini,
noi, signori del tempo e del moto.

Dietro a noi, nella polve travolgasi
dell’attesa e del tedio la trista
ricordanza; via! via! no più limiti
alla nostra sovrana conquista.

Dietro a noi l’ore, lente di trepide
ansie, i ciechi fantasmi dei pigri
ozii, l’estasi vana. Via! l’anima
del futuro oltre i pelaghi migri.

La bufera ci sfida? Non timidi
ci vedrà nell’impàri cimento.
Vinceremo fuggendo più rapidi
delle nubi, dell’ora, del vento.

Su, più presto, più presto! c’ inseguono
spettrali ombre; io ne vedo le gialle
mani adunche levarsi, protendersi
sopra per noi per ghermirci alle spalle.

Respingetele, olà! son le pallide
cure, infeste alle valide tempre,
che ogni baldo vigore c’invidiano:
ne sarem gli schiavi per sempre?

No, sataniche larve! e se a vincervi
nostra possa non vale, la sorte
scherniremo, con noi trascinandovi
alla morte, alla morte, alla morte!

*

Dicembre

Qua e là per la campagna irti si drizzano
al cielo i rami delle piante esauste.
Piove; incombe sull’ampia solitudine
desolata, il silenzio.

Sulla deserta immensità dell’anima
talor mute così piovon le lagrime;
umane braccia così al ciel protendonsi
talora, emunte e supplici.

***

Vittoria Aganoor (Padova, 26 maggio 1855 – Roma, 8 maggio 1910) rappresenta una delle voci più interessanti del panorama poetico tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. In lei confluirono le istanze di diverse correnti letterarie, in particolare dell’ultimo Romanticismo, del Decadentismo e del Crepuscolarismo.

Allieva di Giacomo Zanella, si ispirò soprattutto a Giacomo Leopardi, Gabriele D’Annunzio e Domenico Gnoli. Rifiutò sempre di essere considerata una scrittrice spontanea e sentimentale, preferendo definire la sua una scrittura “di testa”, estremamente studiata e curata nell’aspetto formale; tuttavia, non potè impedire ai versi di svelare la sua natura inquieta e malinconica, insofferente alle costrizioni e alle regole sociali. Lungi dall’essere opere fredde e artificiose, le sue liriche si fanno quindi portavoce del suo mondo interiore: le prime, in particolare, esprimono un tormento dai toni quasi teatrali, un senso di impotenza, un bisogno di libertà che sfocia in un angoscioso desiderio di morte.

Tutto ciò conferì alla sua opera una musicalità particolare, che fu molto apprezzata dalla critica contemporanea. “Ella sa “scrisse Antonio Cippico sulla Rivista Dalmatica “ che tutte le cose nell’Universo, sotto il velo fallace della divina Apparenza, hanno una voce intima, un suono; ella sa ch’è del poeta soltanto rivelare coteste voci essenziali… Ella sa cogliere e infondere ne’ suoi versi tutte le note più tremule, tutte le tinte più diafane, i profili meno delineati, le sfumature e i toni più sottili imprecisi e misteriosi”. Di nobile famiglia (il padre era un conte di origine armena), fu assidua frequentatrice dei salotti e dei circoli culturali; visse per molti anni a Venezia e a Napoli, dove conobbe e frequentò alcuni fra i più importanti letterati del suo tempo. Fu molto schiva nei riguardi delle sue opere, che era sempre restia a pubblicare, forse per timore che non venissero comprese; solo su pressione dei suoi amici, nel 1900 si risolse a dare alle stampe la silloge “Leggenda eterna”.

Nel 1901 sposò a Napoli un deputato, il conte Guido Pompilj, con il quale si trasferì a Perugia. Tra i due nacque un legame profondo, che certamente dovette influire sulla scrittura di Vittoria. La raccolta “Nuove liriche”, pubblicata nel 1908, mostrò infatti uno spirito molto diverso dal precedente: non più teatralità, tormento, anelito alla rivolta, ma una poesia chiara, serena e ricca di armonia. La malattia e la morte sopravvennero a spezzare questa condizione di equilibrio, gettando i suoi cari nel più desolante sconforto: il marito stesso, non reggendo alla sua perdita, si uccise con un colpo di rivoltella poche ore dopo l’accaduto. All’epoca, questo fatto fece molto scalpore, rivestendo il personaggio di Vittoria di un’aura romantica e aumentando la risonanza dei suoi scritti. Negli ultimi anni, l’opera di Vittoria Aganoor – in parte ancora inedita – è stata oggetto di rivalutazione attraverso convegni, articoli e premi letterari.

*

Donatella Pezzino

Fonti:

– Vittoria Aganoor, Leggenda eterna, Milano, Treves, 1900.
– Vittoria Aganoor, Nuove liriche, Roma, Nuova Antologia, 1908.
– Wikipedia
– Franco Mancini, La poesia di Vittoria Aganoor, Firenze, F. Le Monnier, 1959.
-Antonio Cippico, Vittoria Aganoor, articolo pubblicato su “Rivista Dalmatica”, anno II, fasc.1, Maggio 1900, Zara, Stab. Tip. Di S.Artale. pp. 94-98.